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15 Ottobre, 2011-2021

Sono passati dieci anni dai fatti del 15 ottobre del 2011. Dieci anni segnati – in Italia – dal progressivo ispessimento del controllo poliziesco, dall’impoverimento sociale, dalla perdita di slancio di tutti i “movimenti”, dalla paralisi concettuale di molti, e da nuove, rovinose pandemie mondiali. La piccola generazione di coloro che hanno vissuto il 15 ottobre è oramai entrata, integrata o disintegrata, nel mondo sociale lasciato dai postumi di quell’anno. Ma, anche dopo dieci anni, al di là delle commemorazioni (che ci sono sempre state strette), chi di noi può davvero dimenticare quei giorni, scolpiti col fuoco nei nostri animi?

Tutti sanno che il corteo, che originariamente doveva approdare ai “palazzi del potere” di Montecitorio dove sarebbero dovute partite le geremiadi dei cosiddetti indignados contro la cattiveria di Berlusconi e delle banche, è stato deviato all’altezza di Via Cavour ed è poi proseguito, sospinto dal blocco della polizia e dagli sporadici attacchi di chi si era incappucciato, prima su via Labicana e poi infine in piazza San Giovanni, dove è accaduto l’episodio più noto di quella giornata, ovvero la rivolta aperta durata fino a sera contro le camionette della polizia che giravano intorno alla piazza nel tentativo di investire l’esecrata teppa. È cosa ben nota anche l’aperto sabotaggio della rivolta che i Cobas, gli indignados, i disobbedienti ed il variopinto popolo di cittadini benpensanti che partecipava quel giorno al corteo ha orchestrato contro chiunque venisse sospettato di essere “black bloc”, ultras o comunque violento nerovestito, con azioni non solo di aperta delazione (continuata a mezzo stampa nei giorni successivi, in particolare su La Repubblica) ma di sbirraglia interna al corteo contro individui che allora erano adolescenti o poco più. Il copione genovese si era insomma ripetuto a suo modo anche a Roma.

Che dire di quella rivolta che non sia stato già detto? Lasciamo che i commenti sulla “strategia”, su come la contrapposizione tra “persone comuni” e rivoltosi fosse stata controproducente e su quanto fossero gli ultimi spasmi di un movimento dell’Onda in via di naufragio si perdano nel vuoto da cui originano; lasciamo soprattutto che il campionario di infamie che disobbedienti, sindacalisti, giornalisti democratici e pacifisti hanno vomitato in quei giorni contro la violenza di piazza continui ad essere calpestato dai rivoluzionari; chi c’era e anche chi non ha potuto esserci ha assaggiato attimi di vita che solo scintille del genere offrono; ha compreso – più di qualunque libro, educazione od apprendimento letterario – la critica alla società del Capitale, cosa fosse la gioia del vivere diversamente una città come Roma, e si è organizzato spontaneamente attorno all’unica cosa che occorre davvero portare in quei contesti: la rabbia contro l’infamia della vita capitalistica.

Se la nostra piccola generazione ha continuato ad avere l’ombra di quell’entusiasmo dopo dieci anni è perché il 15 ottobre, nonostante le sue contraddizioni, è stato l’esplosione di un potenziale che negli anni successivi si è sempre meno ripresentato. Ma rimane sopito, vivo. E si riaccenderà nel precipitare delle condizioni che attendono il futuro ad un bivio: vita o morte, comunismo o distruzione umana. Rivoluzione o annichilimento!

UN ALTRO CAPITALISMO È IMPOSSIBILE. DOPO 20 ANNI, GENOVA ODIA ANCORA!

Genova. Città abituata alle rivolte. Città che ha dato natali ad illustri ribelli. Balilla, il Risorgimento, i moti operai e proletari dell’ottocento, la fondazione del Partito Socialista d’Italia, la resa dell’esercito tedesco direttamente alla popolazione insorta nel ’45, gli ex partigiani che nel’ 48 salgono con le mitragliatrici sui tetti, il 30 giugno ’60, i Camalli (tradotto dal Genovese all’Italiano: portuali, facchini), gli operai, i ragazzi delle zone “difficili”, i turbolenti anni settanta.

Ed anche in quei giorni di 20 anni fa, non fu da meno.

Di nuovo, operai, camalli, ragazzi di strada, ultras, ribelli, dai quartieri delle fabbriche del ponente, come da quelli lontani delle valli da cui il mare non si vede, come da tante altre parti della città, si riversarono nelle piazze, nelle loro piazze. Tutti idealmente con la maglietta a righe dei loro padri e nonni, e tutti con gli uncini, gli uncini usati per lavorare in porto, stretti in mano. In particolare, i Caruggi, cioè il centro storico dai vicoli stretti, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” (La Città Vecchia, Fabrizio De André), erano stati decretati zona rossa, con tutte le nocive conseguenze in relazione ai controlli polizieschi per i suoi abitanti, una parte dei quali viveva di attività extra legali. Alle divise per nulla gradite, prima, durante e dopo le manifestazioni hanno mostrato chiaramente quanto non fossero desiderate da quelle parti. Una città, dunque, perfetta per il G8, per quel G8.

Era l’epoca del “popolo di Seattle”, o movimento “No Global”. Un movimento che già da qualche anno, un po’ in tutto il mondo, rovinava la festa patinata ai potenti della terra durante i loro congressi. Un movimento internazionale, nel senso che attraversava diversi paesi del mondo, e che, soprattutto, aveva ben chiaro che la dimensione dello scontro fra sfruttati e sfruttatori fosse, per l’appunto, internazionale. Aveva una sua certa consistenza numerica, in quanto attraeva tipologie molto diverse fra loro, dal lavoratore allo studente, dall’ultrà al boy scout, dall’immigrato al giovane emarginato. Quindi, pur essendo interclassista, aveva a suo interno una forte componente proletaria, giovanile e non solo. Trattava molte tematiche, proponendo una critica complessiva a tutte le contraddizioni del sistema. Stava, poi, riuscendo a “contaminare” anche una parte non limitata di opinione pubblica. E, per inciso, ha dimostrato in varie occasioni di essere disposto ad esprimere radicalità.

Dobbiamo, però, essere estremamente chiari su di un punto: tale “popolo di Seattle” non era un momento rivoluzionario. Né nel senso che avrebbe potuto abbattere il capitalismo, e né, più modestamente, che si prefiggesse tale obiettivo. Almeno, non nei bonzi riformisti alla sua direzione. Molte riflessioni, allora, ci consegna tutta questa vicenda, che per certi versi sono di una linearità da manuale. In primis, nella dinamica interna; infatti, ogni movimento di opposizione all’ordine costituito, che non sia inserito in una fase in cui è all’ordine del giorno il superamento del sistema, è ipso facto riformista: il suo scopo è migliorare l’esistente, con ritocchi più o meno significativi e con mezzi più o meno risoluti; il suo vertice è nei fatti (che ne sia consapevole o meno) sempre riassorbito o riassorbibile entro la compatibilità di regime, ed opera nei fatti (che ne sia consapevole o meno) perché accada altrettanto anche al resto del movimento.

All’interno di tali movimenti, però, vi è sovente una componente Rivoluzionaria, di dimensioni variabili. Tali poli, allora, è naturale che siano in conflitto, spesso e volentieri anche fisico. Il movimento No Global, i fatti di Genova, i suoi prodromi e gli strascichi degli anni successivi, ricalcano alla perfezione questo schema ideale.

Una burocrazia interna, almeno in Italia, si era infatti sedimentata intorno a quasi tutti i centri sociali, a buona parte dei sindacati di base, ed ai partiti istituzionali (verdi e rifondazione comunista in primis). I centri sociali erano infatti da anni in via di normalizzazione, preoccupati di non perdere la propria legittimità istituzionale ed il loro rapporto preferenziale con i partiti e le giunte comunali “amiche”, magari piazzando in qualche seggio un loro rappresentante, ricavandone rendite di prestigio e di potere, oltre a profumati finanziamenti. I sindacati di base, nella loro maggioranza, esauritesi le poderose spinte delle lotte operaie e proletarie che li avevano generati, galleggiavano in guerra fra loro per mantenere più iscritti possibile, per autoalimentarsi organizzativamente, dunque economicamente; alcuni di essi in particolare, in tal modo riproducevano nelle loro piccole dimensioni le continue degenerazioni di CGIL-CISL-UIL, finendo addirittura più a destra di componenti di base della citata triade, come di aree di sinistra della FIOM (del resto presenti anch’esse nelle mobilitazioni no global). Riguardo a verdi e rifondazione, con la loro idiota pretesa di essere partiti di lotta e di governo, basta dire che in pochi anni siano scomparsi, non v’è null’altro da aggiungere.

L’alterità e l’inconciliabilità fra le due anime, ovviamente, erano ben riscontrabili dal punto di vista teorico. I riformisti proponevano riforme ampie, come la tassazione delle grandi movimentazioni finanziarie, talmente ampie da essere assolutamente impossibili rimanendo all’interno degli odierni rapporti di produzione e di distribuzione; erano “altermondisti” (“un altro mondo è possibile”, dicevano), cambiare la globalizzazione capitalista senza abbattere il capitalismo che l’aveva generata; niente male come utopia! Invece, la posizione di quelli considerati i veri utopisti, cioè dei Rivoluzionari, era legata al superamento del sistema capitalistico: a tale strategia doveva essere subordinata la tattica, anche quella del movimento.

Cotanti presupposti spiegano il comportamento infame delle tute bianche (poi rinominatesi proprio in quei giorni “disobbedienti”, che raccoglievano molti centri sociali ed associazioni, in particolare del Nordest e di Roma) e di molte altre componenti “moderate”: dagli attacchi squadristi (spesso in 20 o 30 contro pochi), a vere e proprie delazioni. Fiancheggiarono, inoltre, l’opera di calunnia strombazzata dai giornali e dagli altri mass media, a partire da quelli di “sinistra”. Caccia e messa al bando, sia fisica che morale, di chi era vestito di nero e di chiunque avesse voluto dimostrare la propria sacrosanta rabbia. Il comodo capro espiatorio era trovato e dato in pasto a sbirri ed opinione pubblica.

Tanto per far dimenticare che, oltre all’infamia, quello che contraddistingueva le suddette tute era l’incapacità non solo e non tanto di leggere gli eventi e porre una prospettiva a medio e lungo termine (non ci si è mai aspettato tanto da loro), ma, molto più banalmente, a comprendere le condizioni di piazza. Riguardo ad essa, infatti, agivano in modo tanto semplice quanto insensato: in omaggio alla migliore tradizione della sceneggiata all’Italiana, concordavano con la polizia dei finti scontri.

I bianco vestiti, ridicolmente agghindati con “strumenti di difesa”, senza lanciare nemmeno un pinolo, avanzavano verso le forze dell’ordine, che a quel punto li respingevano, dando magari il contentino di essere indietreggiate un 5 metri. A Genova gli accordi tra la DIGOS e le tute bianche erano del medesimo tipo: un po’ di spintoni, poi si sarebbe fatta violare simbolicamente la zona rossa. Ma “spesso gli sbirri ed i carabinieri alla propria parola vengono meno”, ed il corteo fu attaccato sul serio. Le tute bianche hanno, quindi, la responsabilità storica e morale di aver mandato un corteo di migliaia di persone al massacro, non prendendo nemmeno in considerazione che i patti potessero essere disattesi dalla controparte in divisa, e dunque senza prepararsi a veri tafferugli o a qualsiasi altro “piano b”.

Nel loro corteo è morto il compagno Carlo Giuliani. Dunque, la burocrazia riformista di movimento aiutò direttamente ed indirettamente la rappresaglia statale, in taluni casi prendendosi anche la briga, come accennato, di fare da “guardia bianca”.

Ma per affrontare in maniera articolata la repressione di cui il G8 di Genova divenne sinonimo, è opportuno fare una piccola digressione su cosa sia la repressione in generale. Il capitalismo, per autoalimentarsi, non si fa problemi a calpestare tutto e tutti, a partire dalla vita umana. È una immonda barca che galleggia sul sangue. E fuori dall’occidente lo è ancora di più: i morti per guerra, fame, sfruttamento, malattia, clima, ecc. sono innumerevoli ogni anno. Il capitale uccide di norma, per sua natura, dunque.

Non stupisca, allora, che ogni tot mostri il suo vero volto anche dove non si penserebbe, come nella civile ed avanzata Italia. Stroncare un movimento, seppur, come abbiamo argomentato, limitato e per certi versi limitante, con un morto, gli spari, i lacrimogeni, le manganellate, le torture, è la norma, non una eccezione legata ad una contingenza sfortunata, come un governo di centrodestra, errori nella catena di comando dei poliziotti od altro.

Simmel, un sociologo non certo marxista od anarchico, ci ricorda che il potere, per definizione, si regge sulla forza e sul consenso. Più è forte il secondo, e più è limitata la prima, e viceversa. O, detto in altri termini, più si incrina o si rischia di incrinare la riproduzione del capitale, e con esso tutto l’ordine creato a tal scopo, e più la risposta di esso sarà violenta. I sacri “diritti umani” vengono e verranno tranquillamente calpestati alla bisogna, come dimostra in maniera esemplare il recente caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, altro caso di “macelleria messicana”, come lo furono la Diaz e Bolzaneto. Ne tenga conto chi vuole combattere per un altro mondo possibile.

Ritornando in particolare all’oggetto dell’articolo, quindi, l’uso sistematico e scientifico della brutalità poliziesca contro i manifestanti, aveva un duplice scopo. Il primo di aumentare la divisione interna fra “buoni” e “cattivi”, rincarando i conflitti fra le diverse aree, o facendo saltare ogni possibile “connivenza” fra esse; in tale contesto, ripetiamo nuovamente, i più solerti ed i più incorporati nel sistema si sono offerti volentieri di fare da polizia interna. Il secondo di evitare che tale movimento continuasse ad essere o diventasse un reale riferimento per settori di dissenso, di disagio e di “devianza” sociale, in Italia come negli altri paesi; evitare cioè, che le sue fila fossero ingrossate da lavoratori precari sempre più scontenti, da una fascia di lavoratori dal reddito più alto e dalla piccola borghesia (cioè dalle componenti del così detto “ceto medio”) che già all’epoca erano sulla via dell’impoverimento, come anche da giovani e meno giovani, provenienti dai rioni popolari, dagli stadi, dalle scuole o dalle università. La liquidazione riuscì e dopo un paio d’anni il popolo di Seattle si esaurì.

L’evolversi della crisi economica, del resto, aveva azzerato i margini di manovra politico e sociale delle componenti riformiste che illudevano di poter usare tatticamente le istituzioni, magari gozzovigliandoci dentro per portare a casa qualche briciola. Altri scenari, dunque, si sarebbero aperti nell’immediato futuro. Oggi le antinomie di sistema stridono sempre più. Non vi può essere spazio per chi a parole è un incendiario e nei fatti un pompiere (si veda, a tal proposito, la triste parabola dei 5 stelle). Come, nel caso di accelerazioni di piazza, non ci si può permettere la finta estetica dei “disordini” (dall’altra parte le madame menano sul serio!) o della “non violenza gratuita”.

Onorare e fare nostro quanto di positivo il “popolo di Seattle” ha espresso, vuol dire, in primis rigettarne senza reticenze gli errori, le ingenuità, le illusioni. Oggi servirebbe tremendamente un movimento che leggesse nel complessivo il reale, criticando il capitalismo a 360 gradi. Come servirebbe guadagnare la dimensione internazionale della lotta. E servirebbe la generosità nel metterci la faccia ed il corpo in determinate situazioni legate alla strada. Questa volta, però, consapevoli che l’unico altro mondo possibile è solamente quello che si ergerà sulle macerie dell’attuale.

Senza mediazioni né compromessi. Lo dobbiamo a Carlo, ai feriti ed ai pestati di quei giorni, come lo dobbiamo a tutti gli sfruttati, scontenti, e ribelli della terra. Nel loro nome, fra le contraddizioni insanabili dell’odierna società, la Rivoluzione avanza!

BANDIERA ROSSA ED IL SENTIMENTO RIVOLUZIONARIO

A ridosso dell’anniversario della strage delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944), scriviamo qualche riga in merito al Movimento Comunsta d’Italia, meglio conosciuto con il nome del suo organo di stampa, Bandiera Rossa, che più di altri ebbe perdite (oltre 50) in tale occasione.
Non si vuole operare una, seppur breve, ricostruzione storica della detta organizzazione; per chi ne volesse sapere di più rimandiamo all’ottimo libro di Arturo Peregalli L’Altra Resistenza. Il PCI E Le Opposizioni Di Sinistra (1943-1945), oppure a quello, più specifico, di Silverio Corvisieri Bandiera Rossa Nella Resistenza Romana.

Il nostro intento, invece, è proporre uno spunto di analisi, contestualizzando e, se possibile, attualizzando.
Bandiera Rossa era per la Rivoluzione. Da questo dobbiamo partire per ricostruirne le vicende. E, coerentemente, non entrò nel Comitato di Liberazione Nazionale, oltre a criticare aspramente il Pci per aver presto disatteso le proprie parolaie velleità ”rivoluzionarie” e per la sua conseguente alleanza con il partiti borghesi. Una simile posizione, insieme alla critica di deriva burocratica, non poteva che suscitare sospetti e poi ostilità da parte del partitone di Togliatti e Secchia. Del resto, in puro stile stalinista, per i satrapi di botteghe oscure, chiunque si fosse mosso alla propria sinistra, mettendo il dito nella piaga del loro passaggio dalla parte dello stato e della conservazione capitalistica, meritava persecuzione, calunnia e morte.

Ricordiamo, velocemente ed in maniera del tutto sommaria, che gli sbrirri del Pci spararono a più riprese ai compagni rivoluzionari, fra l’altro uccidendo Fausto Atti e Mario Acquaviva del Partito Comunista Internazionalista e Temistocle Vaccarella di Stella Rossa.
Ed anche le calunnie uccidono, specie in un periodo di lotta clandestina. Seminare il sospetto ed isolare i compagni scomodi, con le infamanti accuse di essere spie e servi della gestapo e dei fascisti, equivaleva scientemente ad esporli alla repressione proprio di questi ultimi. Cosi’ è successo nel Nord Italia, come, tra i tanti, al garibaldino dissidente Mauro Venegoni, allo stesso modo a Roma, a Bandiera Rossa, che in tale città, fra il ’43 ed il ’45, ha avuto il numero più alto di vittime (più di 180) fra i raggruppamenti che si opponevano al fascismo, oltre ad innumerevoli arresti e deportati.


Del resto, i componenti di Bandiera Rossa erano poco presentabili e rassicuranti, legati com’erano agli ambienti popolari, anche extralegali, di molti quartieri (da Piazza Vittorio, alla zona nord, a quella sud-est, dal Quadraro a Torpignattara a Centocelle), che, nonostante le suddette accuse picciste infondate ed infamanti, offrivano loro un rifugio, anche se per forza di cose limitato; abituati a razziare le case dei ricchi borghesi romani per finanziarsi (segno di ”infantilismo” per il piccista Franco Calamandrei e per i suoi simili); e, come già detto, “settariamente” ancorati all’idea tutta bolscevica di trasformare la guerra in Rivoluzione. Ed ancora meno presentabili e rassicuranti dovevano apparire in un periodo in cui, al contrario, il Pci e tutto il CLN facevano a gara per tranquillizzare i comandi alleati della loro fede nelle istituzioni democratiche e nell’ordine capitalista. Infatti, tali compagni non ebbero vita facile nemmeno dopo l’avvicendamento degli angloamericani, succeduti ai nazi-fascisti, nè da parte degli alleati stessi, nè da quella della ripristinata polizia democratica e nè da quella del sempre zelante Pci.

Purtroppo i limiti teorici dell’organizzazione, che sicuramente si allontanava dall’esperienza stalinista ma che non ne coglieva l’intima essenza di paravento ideologico di un regime a capitalismo di stato, non le permisero di avere una posizione netta su di essa, come invece la ebbero altri gruppi, in primis il Partito Comunsta Internazionalista, più conseguenziali ai propri presupposti teorici marxisti e più fedelmente ancorati alle radici del Partito Comunista d’Italia del 1921. Sull’U.R.S.S., scrive infatti Corvisieri nel suo libro: “si coglie un’altalena di posizioni, un’oscillazione continua dalle posizioni dei filostalinisti a quelle dei filotrotskisti passando per la teoria “giustificazionista” che cercava di salvare capra e cavoli spiegando come il modello realizzato dell’U.R.S.S. fosse stato un portato della necessità storica ma anche una esperienza particolare e non tale da costituire, perciò, un modello da imitare in tutti i paesi”.

Questa sequela ondivaga di visioni su un argomento all’epoca cosi’ cruciale, impedi’ a Bandiera Rossa di creare un’unica organizzazione con la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani (la quale nel luglio del 1945 si scioglierà, e di cui una buona parte di militanti confluirà nel Partito Comunista Internazionalista), gruppo il cui zoccolo duro era composto soprattutto da milinanti della prima ora del P.C.d’I. nato a Livorno, che si opposero alla svolta staliniana. Tali formazioni ebbero diversi contatti ed incontri, il più importante dei quali fu il Convegno di Napoli della Frazione, del gennaio ’45, al quale parteciparono delle delegazioni della stessa Bandiera Rossa e di altri soggetti rivoluzionari, ma da cui non si arrivò ad una convergenza organizzativa.

Con la fine della guerra, questa vaghezza teorica non consenti’ al M.C.d’I. di avere la saldezza per resistere all’offensiva politica ed organizzativa del Pci, e fini’ per sciogliersi. Una parte dei componenti, comunque, mantenne la propria carica di opposizione radicale al sistema ed ai suoi servi (a cominciare da quelli di ”sinistra”), confluendo chi nell’area della Sinistra Comunista (P.C.Int. primariamente), e chi piu’ tardi in quella dell’Autonomia Operaia.
Dove non arrivò il rigore teorico, dunque, giunse il sentimento Rivoluzionario; esso, anche più del primo, ha indicato ed indica, in ogni contesto luogo e tempo ad ogni militante, da che parte stare!

Il centenario della nascita del PCd’I e noi

Il feticismo delle commemorazioni dovrebbe essere sempre rigettato da parte di chi si considera rivoluzionario. I Sonic Youth cantavano “Kill Yr Idols”, e questo vale anche per noi, che di idoli non dovremmo averne. Le bocche degli opportunisti di ogni risma banchettano sui resti del cadavere del movimento proletario del passato. Per commemorare i cent’anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia (poi Italiano, a sigillo dello stalinismo e del togliattismo) si è scomodato addirittura Ezio Mauro. Ma i giornalisti democratici tutto sommato possiamo capirli: lavorano senza maschere per la conservazione del Capitale, e non ci impensieriscono più di tanto. Invece, sul fronte della propaganda stalinista, riformista e frontista su Livorno, alle fanfare si sono da tempo sostituite le orchestre di trombe sfiatate; le stesse falsificazioni vengono ripetute con stanchezza, senza più enfasi, le stesse icone vengono portate sull’altare nel tentativo di mantenere in vita la mistificazione anche in occasione di questo centenario. Che diremmo noi, quindi, di questi cent’anni dalla scissione che fondò il Partito Comunista d’Italia, il 21 Gennaio del 1921, a Livorno?  

È nota quale fosse la situazione italiana prima del 1921: Una guerra mondiale svolta dalla parte dei vincitori ma vinta a prezzo altissimo per il proletariato, un Partito Socialista imperniato sulla formula di Lazzari del “né aderire né sabotare” e incapace di ammettere di essere inadeguato per una situazione di aperto scontro sociale, ma con una tendenza di sinistra (costituitasi in frazione tra il 1918 e il 1919) che, a dispetto dei riformisti e dei massimalisti a la Serrati, godeva dell’appoggio di una larga fetta del partito (a partire dalla Federazione Giovanile, che passò in blocco al PCd’I) in una situazione di malcontento generalizzato, segnato da agitazioni operaie che scossero tutto il paese dal 1919 fino all’autunno del 1920. Fuori dall’Italia, tra il 1918 e il 1920 venne repressa la rivoluzione spartachista e morirono in carcere Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fallì la repubblica dei consigli di Béla Kun in Ungheria ed il movimento rivoluzionario europeo, esploso sulla scia della rivoluzione d’Ottobre e della prima guerra mondiale, si incamminò verso la sua inesorabile ritirata. 

Dopo la fondazione della Terza Internazionale nel 1919 ed in pieno svolgimento della guerra civile in Russia, venne convocato il secondo congresso dell’Internazionale nel 1920, al quale partecipò la frazione “astensionista” del PSI sotto convocazione dello stesso Lenin; fu in quel congresso che vennero approvate le famose 21 condizioni della Terza Internazionale, la ventunesima delle quali venne proposta dagli stessi astensionisti italiani. La questione dei “punti di Mosca” era dirimente per la frazione di sinistra che avrebbe costituito il partito comunista; si trattava certo non di una lotta democratica per conquistare una maggioranza all’interno del Partito Socialista che allora era saldamente in mano al “centro” massimalista, ma di preparare teoricamente e organizzativamente la scissione che di lì a poco si sarebbe verificata. 

Il diciassettesimo congresso del Partito Socialista venne convocato tra il 15 e il 21 Gennaio del 1921, al Teatro Goldoni di Livorno. I 21 punti dell’Internazionale, citando a chiare lettere i nomi dei rappresentanti riformisti all’interno dei partiti socialisti europei (tra cui Turati per l’Italia), preconizzavano l’espulsione dei riformisti, una critica aperta al fallimento della seconda internazionale di fronte alla guerra e a quella che allora veniva chiamata “internazionale 2 e ½” con sede ad Amsterdam, ed il cambiamento del nome dei partiti in “Partito Comunista di questo o quel paese, sezione dell’Internazionale Comunista”. Tutte queste richieste erano state in parte anticipate e fatte proprie dalle due tendenze di sinistra che affrontarono a Livorno le mozioni dei Treves, Modigliani, Serrati etc., ovvero quelle incentrate nei giornali “L’Ordine Nuovo” di Torino ma soprattutto ne “Il Soviet” di Napoli, diretto da Amadeo Bordiga.  

La mozione dei massimalisti di Serrati ottenne, prevedibilmente, una schiacciante maggioranza alle votazioni del congresso, ed allora i rappresentanti della mozione comunista, dopo una lunga orazione che riassumeva i dissensi dell’ala scissionista del Partito pronunciata da Bordiga, formarono un corteo per uscire e recarsi al Teatro San Marco di Livorno, dove finalmente venne fondato il Partito Comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale. 

Non ci proponiamo in questo articolo di parlare in dettaglio di quello che fu il primo momento storico del PCd’I tra il 1921 e il 1926, nonché delle giravolte tattiche della Terza Internazionale in via di degenerazione (dalla parola d’ordine prima del “Fronte Unico” nel 1921 per passare poi a quella del “Governo Operaio” nel 1922, a cui fu aggiunta la dicitura “e Contadino” nel 1924), o della defenestrazione della sinistra imposta dai vertici dell’Internazionale, perseguita da Gramsci e Togliatti dopo l’arresto in massa dei comunisti nel 1923 e chiamata con lo squallido nome di “bolscevizzazione”, fino alla definitiva ascesa del fascismo dopo l’assassinio di Matteotti ed il congresso farsa di Lione dell’ormai bolscevizzato PCd’I del 1926. Tutto ciò è materia per ulteriori approfondimenti, che guardino anche ad un superamento dell’esperienza rivoluzionaria dei primi due anni del Partito. 

Sarà sufficiente però riaffermare che tutte le falsificazioni costruite dall’opportunismo stalinista sulla storia dei primi anni del PCd’I, e ripetute dai suoi discepoli più o meno consapevoli, si basano sulla capacità che ha avuto lo stalinismo nell’aggiogare il proletariato alla nazione (e tra queste falsificazioni la più infamante rimane quella di aver favorito l’ascesa del fascismo per via della tattica “settaria” di rifiutare ogni frontismo con il Partito Socialista e con gli Arditi del Popolo, che è una narrazione fondata sul proposito di riscrivere i fatti di quegli anni oscurando il ruolo essenziale che ebbe l’Ufficio I° del PCd’I, ossia l’apparato militare illegale del Partito, nell’affrontare le squadre fasciste sul terreno della lotta aperta e offensiva, l’importanza relativa che ebbero gli Arditi in quella lotta ed il ruolo che il fallimento dello sciopero generale dell’Agosto 1922 ebbe nel favorire l’avvento del governo fascista, come abbiamo cercato di spiegare anche nel nostro articolo sull’antifascismo), nell’integrare insomma il proletariato all’interno della comunità materiale del Capitale. 

Come affermato all’inizio, siamo contrari al feticismo delle commemorazioni. Una valutazione critica sulla fondazione del PCd’I, ad esempio, non può prescindere dall’osservazione, condivisa in parte dallo stesso Amadeo Bordiga, che il Partito Comunista in Italia era nato troppo tardi: il Biennio Rosso era rifluito nell’illusione che le fabbriche occupate dagli operai costituissero un “nucleo di socialismo”, come riteneva l’Ordine Nuovo e Gramsci, senza riuscire però a scalfire il potere del governo liberale di Giolitti. Ciò era dovuto all’assenza di una forza organizzata attorno a un programma rivoluzionario. Il fatto che il partito fosse nato tardi non vuol dire che bisogna inventarsi qualche ipotesi retrospettiva in cui sarebbe dovuto nascere prima: pur essendo nato in una situazione di riflusso, il PCd’I è riuscito ad anticipare nei due anni in cui è stato in mano alla Sinistra una forma di organizzazione che si reggeva su una disciplina spontanea, razionale ma non oppressiva, fondata su un programma rivoluzionario che poneva al centro del suo agire la visione di una società radicalmente diversa dal capitalismo.  

Il movimento proletario che diede vita alla Rivoluzione d’Ottobre e al PCd’I è finito, ma il comunismo preme come forza sempre più potente all’interno della società odierna. La comunità del Capitale traballa sempre di più. Più che uno sterile ricordo dei cent’anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia i rivoluzionari odierni hanno bisogno di porsi nell’invarianza che li congiunge a quell’esperienza, a quella di tutte le rivoluzioni che hanno cercato di fondare una comunità antitetica a quella del Capitale ed alla visione di un mondo liberato dalle miserie del denaro, dello Stato, delle classi, del lavoro, delle nazioni e dalla disperazione materiale e psichica che accompagna la discesa agli inferi di una società sempre più intollerabile per la vita degli individui. 

Tesi sul 25 Aprile

Introduzione

Il 25 Aprile è di nuovo alle porte, e tutte le forze politiche più o meno riformiste cominciano organizzare i loro preparativi per festeggiare la Liberazione dal fascismo, quest’anno incoraggiate da un nuovo frontismo nato per combattere i rappresentanti più o meno farseschi e repellenti del governo attuale.

La resistenza e l’antifascismo, per come vengono presentati dall’oleografia post-bellica e dalla retorica della sinistra, dei socialdemocratici così come dei militanti del “Movimento”, sono i Valori fondanti che devono essere dogmaticamente seguiti da chiunque; mettere in discussione questi Valori, anche per i “militanti” più temerari e battaglieri, è fuori luogo, è un peccato che vale, se non la scomunica, se non altro il sospetto di molti. Eppure, nella pochezza politica attuale, è facile vedere che molti di coloro che, specialmente nel “movimento”, ripetono e si battono per diffondere questa stanca fraseologia, lo fanno per mancanza d’altro: d’altronde il fascismo e il rossobrunismo aperto, e le forze che a questo fascismo più o meno truce ammiccano, hanno già fatto il loro lavoro nel porsi come alternativa “anticonformista”, “ribelle” e così via blaterando.

Cosa può esserci al di fuori di questa battaglia fra le rane e i topi che è la contesa borghese nel 2019? Occorre innanzitutto stabilire una (breve) premessa metodologica, storica e politica sul perché, dalla nostra prospettiva, la resistenza è stata una sconfitta per il proletariato internazionale e italiano, e l’antifascismo, se con questo termine intendiamo un blocco di vari partiti e classi per la difesa di garanzie democratiche minacciate dai movimenti fascisti, una strategia che non ha nulla a che vedere con una lotta effettiva alla reazione e al fascismo, ma è stata e continua ad essere una strategia interclassista per aggiogare il proletariato alla difesa dello Stato borghese.

I

Nella visione che viene di solito associata al fronte antifascista, il fascismo è un monolite quasi unicamente ideologico: ha i suoi codici culturali, ha le sue strategie comunicative, i suoi simboli e i suoi legami più o meno decifrabili: ci si ritrova soltanto a combattere contro dei simboli o dei gruppi di persone più o meno odiose piuttosto che attaccare la causa profonda che favorisce il riemergere di posizioni reazionarie. Il fascismo quindi diventa un’aberrazione della vita democratica: anche se alcuni antifascisti possono tentare di evidenziare di come il loro antifascismo mostri il carattere “fascista” anche della democrazia borghese – cosa indubbiamente vera se vista da una prospettiva diversa – nella pratica il carattere di una politica del genere li pone sul terreno della difesa della democrazia.

II

Ma il capitalismo odierno, Moloch astratto, entropico e centralizzatore, è un sistema giunto ad una situazione in cui il suo funzionamento è fuori controllo: per rimediare a questa mancanza di controllo, lo Stato deve svuotarsi del suo contenuto liberale (e di ogni “politica”) e farsi autoritario, centripeto e repressivo, possibilmente adottando ideologie che legittimino il suo ruolo di difesa del capitalismo, e rivendicando la sua azione nell’esclusione delle minoranze sacrificabili per il “Popolo”, oltre a continuare a vigilare per difendere gli interessi della borghesia – anche quando sembra più “democratico” e liberale.

III

Lenin, riprendendo il Marx del terzo libro del Capitale e gli studi sul capitale finanziario di Rudolf Hilferding, aveva chiamato questa tendenza – embrionale agli inizi del ‘900 – come “Imperialismo” nel suo celebre libro dallo stesso titolo: allora era l’epoca dei trust e dei primi monopoli, e la Prima guerra mondiale (nel 1916) era in pieno svolgimento; in questo contesto Lenin affermò che il capitalismo fosse ormai “un involucro a cui non corrisponde più il contenuto”, perché lo sviluppo delle forze produttive, frenato e distorto dal persistere del capitalismo, si rivolgeva ormai contro sé stesso.

IV

Nell’anno corrente, al di là di qualunque valutazione critica dell’opera di Lenin o del concetto di imperialismo, possiamo constatare la realtà della società in cui viviamo: una società che riposa su una montagna di debiti delle aziende e dei governi, che giace sotto una mole di denaro fittizio che vale decine di volte il PIL mondiale, in cui i governi si dibattono per scongiurare una recessione che tutti danno per scontato che avverrà prossimi anni, in cui miliardari aspettano di poter mandare navicelle per l’esplorazione di Marte sperando di poter valorizzare il Capitale nello spazio, e in cui ad un’accelerazione della tecnologia e delle capacità dell’intelligenza artificiale corrisponde una relativa stagnazione della globalizzazione del Capitale. Estrarre (ed indirizzare) plusvalore a livello globale è diventato un compito sempre più difficile, e centinaia di milioni di persone a livello globale sono ormai rese inutili al processo produttivo stesso. Il tentativo di una parte della borghesia di invertire questo processo, in cui la Nazione e la stabilità del ciclo di accumulazione si dissolvono sotto il peso delle contraddizioni interne al sistema, e ritornare ad un ciclo “sano” di estrazione del plusvalore, specialmente nel caso dei paesi di vecchia industrializzazione come quelli europei o gli Stati Uniti, corrisponde politicamente al blocco che si fa chiamare “sovranista” e che non a caso riprende più o meno consciamente una parte delle rivendicazioni del fascismo storico.

V

Giova ricordare che il fascismo, emerso inizialmente da un insieme di spinte propulsive provenienti dal sindacalismo anarchico, da una parte della piccola borghesia studentesca, dai socialisti interventisti durante la prima guerra mondiale (tra cui lo stesso Mussolini), dai soldati irredentisti che protestavano contro la “vittoria mutilata” italiana e da varie forze provenienti da destra (ma specialmente da sinistra), non fu, come pensava Gramsci e come pensano tuttora molti antifascisti, una reazione di “ceti retrivi” agrari volta a restaurare condizioni sociali premoderne, ma fu un movimento il cui principale sostegno economico venne dalla grande borghesia industriale e finanziaria, come testimoniato dai bilanci del PNF durante gli anni ’20, e appoggiato dallo Stato e dalla borghesia, agraria e urbana, per distruggere l’avanzata rivoluzionaria del proletariato nelle campagne e nelle città, così come oggi il cosiddetto “sovranismo” aspira ad essere una copia in sedicesimo del fascismo storico.

VI

Con l’inizio delle azioni squadristiche, concentrate inizialmente nei centri agrari del Nord Italia (con le prime azioni eclatanti a Bologna e nelle campagne lombarde) e poi estese a tutto il paese, cominciarono naturalmente a formarsi movimenti di opposizione alle azioni delle squadre fasciste: in prima linea, data la politica di collaborazione nei confronti del governo voluta dal partito socialista (governo che nel giro di un anno passerà da Giolitti a Bonomi ed infine a Facta), vi fu il neo-formato partito comunista d’Italia, che cominciò immediatamente a preparare un’organizzazione militare illegale per organizzare l’offensiva armata contro i fascisti, e gli arditi del popolo, ovvero un fronte di militanti eterogenei accomunati da un’estetica che si rifaceva all’arditismo del Regio Esercito italiano (il fondatore, Argo Secondari, era stato un tenente del battaglione studenti degli arditi durante la prima guerra mondiale) ed una pratica che in parte anticipava quella dei fronti antifascisti successivi.

VII

Si è variamente parlato del fatto che per ordine del comitato centrale del Partito, allora presieduto da Bordiga, venne posto un veto ai militanti del partito nell’unirsi agli Arditi del Popolo, ed in generale nel partecipare a qualunque blocco tra vari partiti contro il fascismo, vista l’esistenza di un’azione armata autonoma del PCd’I contro le camicie nere: generazioni di storici e d’ideologhi stalinisti e gramsciani si sono sbracciati per attribuire la vittoria del fascismo ad una decisione “settaria” e arbitraria da parte del partito comunista, quando invece le condizioni per la vittoria definitiva del fascismo furono probabilmente poste dal fallimento dei moti sindacali dell’estate del ’22, più che dalla marcia su Roma, che fu una “commedia fra forze borghesi” come disse poi lo stesso Bordiga.

VIII

Dopo la vittoria del fascismo, accelerata dall’omicidio di Matteotti e dalla promulgazione delle “leggi fascistissime” del 1925, il campo di battaglia della reazione fascista si spostò prima in Germania e poi in Spagna. In quest’ultimo contesto i preamboli dell’affermazione del franchismo furono posti dalla repressione brutale dello sciopero dei minatori asturiani nell’Ottobre del 1934, sotto il governo di Alejandro Lerroux, e dall’ascesa politica della Falange nel triennio 1934-1936. Nel 1936 il Fronte Popolare, appoggiato da una coalizione di partiti che includeva anche il POUM trotskista, vinse le elezioni: nonostante l’astensionismo teorico degli anarchici, la vittoria fu supportata, notoriamente, anche dalla CNT. Ed è questa vittoria il pretesto che scatena la guerra civile degli anni successivi: a luglio dello stesso anno, quattro falangisti uccidono il tenente di polizia Josè Castillo.

IX

È facile notare di come, anche senza ricapitolare tutti gli episodi della guerra civile spagnola, una battaglia che ebbe momenti di vera lotta di classe e che fu accompagnata da espropri e collettivizzazioni frenetiche da parte dei proletari e dei contadini, divenne presto una guerra per procura tra potenze diverse: il blocco dei repubblicani, che a questo punto incluse, specialmente a Barcellona, il POUM, la FAI (la federazione anarchica iberica) e la CNT, accettò presto l’aiuto dell’Unione Sovietica, mentre i nazionalisti di Franco furono aiutati militarmente dalla Germania, dall’Italia e dal Portogallo salazarista. Come conseguenza di questo aiuto, l’Unione Sovietica cominciò a fagocitare, militarmente ed economicamente, il blocco repubblicano, nonostante il continuo sostegno (con relativi sacrifici chiesti al proletariato spagnolo) di anarchici e trotskisti al Fronte: al posto del primo ministro Francisco Largo Caballero, venne nominato nel 1937 Juan Negrin, un socialista vicino al PCE stalinista, e molti dei militanti anarchici, trotskisti o semplicemente non stalinisti nel Fronte Popolare vennero calunniati come controrivoluzionari e assassinati, come accadde a Camillo Berneri nello stesso anno.

X

Dopo i tentativi fallimentari di Negrin e degli stalinisti di salvare la repubblica “antifascista”, arrivando addirittura a smobilitare le brigate internazionali e a trasferire la capitale a Barcellona, la tenuta militare del fronte popolare si disfece, e nei primi mesi del1939 cadde l’ultimo avamposto repubblicano in Catalogna, consegnando la Spagna al nuovo potere della falange franchista. La guerra civile spagnola, nei suoi sviluppi, anticipò quindi le dinamiche che caratterizzarono la ventura Seconda guerra mondiale, e fornì la prima testimonianza del fallimento politico dei blocchi antifascisti, nonché della loro inutilità per il proletariato internazionale.

XI

La Seconda guerra mondiale scoppia, quindi. L’Italia fascista, dopo tre anni di perdite militari, si vide invasa dagli eserciti degli anglo-americani sbarcati in Sicilia. Il maresciallo Pietro Badoglio, com’è noto, sotto ordine del re depose il governo di Mussolini, sciolse formalmente il PNF e formò un governo di transizione il 25 luglio del 1943 per trattare con gli Alleati che avanzavano lungo il Sud Italia. L’8 Settembre arriva l’armistizio: l’Italia si arrende e si consegna alle forze alleate, mentre Mussolini fugge al Nord per fondare la repubblica di Salò. Appena dopo l’armistizio, la Wehrmacht invade l’Italia centro-settentrionale, compresa Roma, e comincia le sue rappresaglie contro ebrei e dissidenti politici, e il 9 Settembre viene fondato il CLN, presieduto dal PCI di Togliatti, dalla nascente DC e da liberali e socialisti. Come per la Spagna, nella Seconda guerra mondiale si profilarono anche in Italia le dinamiche di una guerra per procura.

XII

Ma anche la “resistenza” che il CLN voleva dirigere sfuggiva dal controllo totale da parte dell’ideologia partigiana: a Roma, ad esempio, i militanti del PCI avevano un peso del tutto minore rispetto alle azioni di Bandiera Rossa, che raggruppava tra gli altri (nonostante una forte componente stalinista) una parte di quei comunisti che ricordavano l’intransigenza rivoluzionaria del PCd’I delle origini, e aveva tra le sue roccaforti alcune borgate romane (il Quadraro e il Quarticciolo in particolare). Per questo motivo, sull’esempio spagnolo, i PCI e i suoi scherani cominciarono a calunniare come agenti fascisti e a perseguitare chiunque si ponesse in una prospettiva rivoluzionaria e internazionalista nella lotta al nazismo, compresi, oltre ad alcuni militanti di Bandiera Rossa, gli anarchici e i pochi comunisti internazionalisti che agitavano per la rottura del blocco con l’Unione Sovietica, tra cui Fausto Atti e Mario Acquaviva, entrambi uccisi dagli stalinisti nel 1945.

XIII

A resistenza finita, e glorificati, come ebbe a dire Togliatti, i partigiani del tricolore sollevato dal fango in cui l’aveva gettato il fascismo, l’Italia fu “liberata” il 25 Aprile quando la costola settentrionale del CLN proclamò, su indicazione di Sandro Pertini, lo “sciopero generale insurrezionale” nei territori ancora occupati dai nazifascisti. La storia seguente è cosa risaputa: il PCI, sotto la mano di Togliatti, concesse l’amnistia a migliaia di fascisti nel 1946 per accreditarsi agli occhi degli americani e del governo post-bellico, l’antifascismo e la resistenza furono integrati nelle parate patriottiche del nuovo Stato democratico, e la “costituzione più bella del mondo”, tra ipocrite concessioni e garanzie di libertà, faceva dell’antifascismo la giustificazione del nuovo ciclo di accumulazione del Capitale italiano.

XIV

In sintesi, l’antifascismo e l’ideologia della resistenza hanno avuto il ruolo di sopprimere ogni moto indipendente da parte del proletariato, in qualunque forma si fosse presentato storicamente. È importante, in tal senso, sottolineare di come la condizioni politiche per l’ascesa dei regimi fascisti furono poste dai governi liberali e “antifascisti”, come il governo di Giolitti e di Nitti in Italia, quello Azaña-Caballero-Negrin in Spagna e quello dei socialdemocratici in Germania: tutti i governi, a prescindere dalla facciata democratica che possono darsi, devono ballare al ritmo di un Capitale sempre più “fascista” e onnipervasivo.

XVII

Inoltre, se guardiamo al presente, nonostante gli appelli alla resistenza e alla formazione di nuovi partigiani contro i gruppi fascisti nelle nostre città, vediamo che a questi appelli raramente corrisponde un’azione degna di nota: questo succede, tra gli altri motivi, perché la parola d’ordine della resistenza è una parola di per sé disfattista e regressiva; i rivoluzionari devono contrapporre a questo indirizzo la opposta consegna dell’offensiva contro i fascisti, il Capitale e i suoi scherani, di qualunque schieramento politico, tutti unitamente reazionari contro la tempesta rivoluzionaria e liberatrice, germe di un nuovo modo di vita della specie e degli individui e sola possibilità di fermare il futuro catastrofico che la società, inibendoci, ci offre.