Genova. Città abituata alle rivolte. Città che ha dato natali ad illustri ribelli. Balilla, il Risorgimento, i moti operai e proletari dell’ottocento, la fondazione del Partito Socialista d’Italia, la resa dell’esercito tedesco direttamente alla popolazione insorta nel ’45, gli ex partigiani che nel’ 48 salgono con le mitragliatrici sui tetti, il 30 giugno ’60, i Camalli (tradotto dal Genovese all’Italiano: portuali, facchini), gli operai, i ragazzi delle zone “difficili”, i turbolenti anni settanta.
Ed anche in quei giorni di 20 anni fa, non fu da meno.
Di nuovo, operai, camalli, ragazzi di strada, ultras, ribelli, dai quartieri delle fabbriche del ponente, come da quelli lontani delle valli da cui il mare non si vede, come da tante altre parti della città, si riversarono nelle piazze, nelle loro piazze. Tutti idealmente con la maglietta a righe dei loro padri e nonni, e tutti con gli uncini, gli uncini usati per lavorare in porto, stretti in mano. In particolare, i Caruggi, cioè il centro storico dai vicoli stretti, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” (La Città Vecchia, Fabrizio De André), erano stati decretati zona rossa, con tutte le nocive conseguenze in relazione ai controlli polizieschi per i suoi abitanti, una parte dei quali viveva di attività extra legali. Alle divise per nulla gradite, prima, durante e dopo le manifestazioni hanno mostrato chiaramente quanto non fossero desiderate da quelle parti. Una città, dunque, perfetta per il G8, per quel G8.
Era l’epoca del “popolo di Seattle”, o movimento “No Global”. Un movimento che già da qualche anno, un po’ in tutto il mondo, rovinava la festa patinata ai potenti della terra durante i loro congressi. Un movimento internazionale, nel senso che attraversava diversi paesi del mondo, e che, soprattutto, aveva ben chiaro che la dimensione dello scontro fra sfruttati e sfruttatori fosse, per l’appunto, internazionale. Aveva una sua certa consistenza numerica, in quanto attraeva tipologie molto diverse fra loro, dal lavoratore allo studente, dall’ultrà al boy scout, dall’immigrato al giovane emarginato. Quindi, pur essendo interclassista, aveva a suo interno una forte componente proletaria, giovanile e non solo. Trattava molte tematiche, proponendo una critica complessiva a tutte le contraddizioni del sistema. Stava, poi, riuscendo a “contaminare” anche una parte non limitata di opinione pubblica. E, per inciso, ha dimostrato in varie occasioni di essere disposto ad esprimere radicalità.
Dobbiamo, però, essere estremamente chiari su di un punto: tale “popolo di Seattle” non era un momento rivoluzionario. Né nel senso che avrebbe potuto abbattere il capitalismo, e né, più modestamente, che si prefiggesse tale obiettivo. Almeno, non nei bonzi riformisti alla sua direzione. Molte riflessioni, allora, ci consegna tutta questa vicenda, che per certi versi sono di una linearità da manuale. In primis, nella dinamica interna; infatti, ogni movimento di opposizione all’ordine costituito, che non sia inserito in una fase in cui è all’ordine del giorno il superamento del sistema, è ipso facto riformista: il suo scopo è migliorare l’esistente, con ritocchi più o meno significativi e con mezzi più o meno risoluti; il suo vertice è nei fatti (che ne sia consapevole o meno) sempre riassorbito o riassorbibile entro la compatibilità di regime, ed opera nei fatti (che ne sia consapevole o meno) perché accada altrettanto anche al resto del movimento.
All’interno di tali movimenti, però, vi è sovente una componente Rivoluzionaria, di dimensioni variabili. Tali poli, allora, è naturale che siano in conflitto, spesso e volentieri anche fisico. Il movimento No Global, i fatti di Genova, i suoi prodromi e gli strascichi degli anni successivi, ricalcano alla perfezione questo schema ideale.
Una burocrazia interna, almeno in Italia, si era infatti sedimentata intorno a quasi tutti i centri sociali, a buona parte dei sindacati di base, ed ai partiti istituzionali (verdi e rifondazione comunista in primis). I centri sociali erano infatti da anni in via di normalizzazione, preoccupati di non perdere la propria legittimità istituzionale ed il loro rapporto preferenziale con i partiti e le giunte comunali “amiche”, magari piazzando in qualche seggio un loro rappresentante, ricavandone rendite di prestigio e di potere, oltre a profumati finanziamenti. I sindacati di base, nella loro maggioranza, esauritesi le poderose spinte delle lotte operaie e proletarie che li avevano generati, galleggiavano in guerra fra loro per mantenere più iscritti possibile, per autoalimentarsi organizzativamente, dunque economicamente; alcuni di essi in particolare, in tal modo riproducevano nelle loro piccole dimensioni le continue degenerazioni di CGIL-CISL-UIL, finendo addirittura più a destra di componenti di base della citata triade, come di aree di sinistra della FIOM (del resto presenti anch’esse nelle mobilitazioni no global). Riguardo a verdi e rifondazione, con la loro idiota pretesa di essere partiti di lotta e di governo, basta dire che in pochi anni siano scomparsi, non v’è null’altro da aggiungere.
L’alterità e l’inconciliabilità fra le due anime, ovviamente, erano ben riscontrabili dal punto di vista teorico. I riformisti proponevano riforme ampie, come la tassazione delle grandi movimentazioni finanziarie, talmente ampie da essere assolutamente impossibili rimanendo all’interno degli odierni rapporti di produzione e di distribuzione; erano “altermondisti” (“un altro mondo è possibile”, dicevano), cambiare la globalizzazione capitalista senza abbattere il capitalismo che l’aveva generata; niente male come utopia! Invece, la posizione di quelli considerati i veri utopisti, cioè dei Rivoluzionari, era legata al superamento del sistema capitalistico: a tale strategia doveva essere subordinata la tattica, anche quella del movimento.
Cotanti presupposti spiegano il comportamento infame delle tute bianche (poi rinominatesi proprio in quei giorni “disobbedienti”, che raccoglievano molti centri sociali ed associazioni, in particolare del Nordest e di Roma) e di molte altre componenti “moderate”: dagli attacchi squadristi (spesso in 20 o 30 contro pochi), a vere e proprie delazioni. Fiancheggiarono, inoltre, l’opera di calunnia strombazzata dai giornali e dagli altri mass media, a partire da quelli di “sinistra”. Caccia e messa al bando, sia fisica che morale, di chi era vestito di nero e di chiunque avesse voluto dimostrare la propria sacrosanta rabbia. Il comodo capro espiatorio era trovato e dato in pasto a sbirri ed opinione pubblica.
Tanto per far dimenticare che, oltre all’infamia, quello che contraddistingueva le suddette tute era l’incapacità non solo e non tanto di leggere gli eventi e porre una prospettiva a medio e lungo termine (non ci si è mai aspettato tanto da loro), ma, molto più banalmente, a comprendere le condizioni di piazza. Riguardo ad essa, infatti, agivano in modo tanto semplice quanto insensato: in omaggio alla migliore tradizione della sceneggiata all’Italiana, concordavano con la polizia dei finti scontri.
I bianco vestiti, ridicolmente agghindati con “strumenti di difesa”, senza lanciare nemmeno un pinolo, avanzavano verso le forze dell’ordine, che a quel punto li respingevano, dando magari il contentino di essere indietreggiate un 5 metri. A Genova gli accordi tra la DIGOS e le tute bianche erano del medesimo tipo: un po’ di spintoni, poi si sarebbe fatta violare simbolicamente la zona rossa. Ma “spesso gli sbirri ed i carabinieri alla propria parola vengono meno”, ed il corteo fu attaccato sul serio. Le tute bianche hanno, quindi, la responsabilità storica e morale di aver mandato un corteo di migliaia di persone al massacro, non prendendo nemmeno in considerazione che i patti potessero essere disattesi dalla controparte in divisa, e dunque senza prepararsi a veri tafferugli o a qualsiasi altro “piano b”.
Nel loro corteo è morto il compagno Carlo Giuliani. Dunque, la burocrazia riformista di movimento aiutò direttamente ed indirettamente la rappresaglia statale, in taluni casi prendendosi anche la briga, come accennato, di fare da “guardia bianca”.
Ma per affrontare in maniera articolata la repressione di cui il G8 di Genova divenne sinonimo, è opportuno fare una piccola digressione su cosa sia la repressione in generale. Il capitalismo, per autoalimentarsi, non si fa problemi a calpestare tutto e tutti, a partire dalla vita umana. È una immonda barca che galleggia sul sangue. E fuori dall’occidente lo è ancora di più: i morti per guerra, fame, sfruttamento, malattia, clima, ecc. sono innumerevoli ogni anno. Il capitale uccide di norma, per sua natura, dunque.
Non stupisca, allora, che ogni tot mostri il suo vero volto anche dove non si penserebbe, come nella civile ed avanzata Italia. Stroncare un movimento, seppur, come abbiamo argomentato, limitato e per certi versi limitante, con un morto, gli spari, i lacrimogeni, le manganellate, le torture, è la norma, non una eccezione legata ad una contingenza sfortunata, come un governo di centrodestra, errori nella catena di comando dei poliziotti od altro.
Simmel, un sociologo non certo marxista od anarchico, ci ricorda che il potere, per definizione, si regge sulla forza e sul consenso. Più è forte il secondo, e più è limitata la prima, e viceversa. O, detto in altri termini, più si incrina o si rischia di incrinare la riproduzione del capitale, e con esso tutto l’ordine creato a tal scopo, e più la risposta di esso sarà violenta. I sacri “diritti umani” vengono e verranno tranquillamente calpestati alla bisogna, come dimostra in maniera esemplare il recente caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, altro caso di “macelleria messicana”, come lo furono la Diaz e Bolzaneto. Ne tenga conto chi vuole combattere per un altro mondo possibile.
Ritornando in particolare all’oggetto dell’articolo, quindi, l’uso sistematico e scientifico della brutalità poliziesca contro i manifestanti, aveva un duplice scopo. Il primo di aumentare la divisione interna fra “buoni” e “cattivi”, rincarando i conflitti fra le diverse aree, o facendo saltare ogni possibile “connivenza” fra esse; in tale contesto, ripetiamo nuovamente, i più solerti ed i più incorporati nel sistema si sono offerti volentieri di fare da polizia interna. Il secondo di evitare che tale movimento continuasse ad essere o diventasse un reale riferimento per settori di dissenso, di disagio e di “devianza” sociale, in Italia come negli altri paesi; evitare cioè, che le sue fila fossero ingrossate da lavoratori precari sempre più scontenti, da una fascia di lavoratori dal reddito più alto e dalla piccola borghesia (cioè dalle componenti del così detto “ceto medio”) che già all’epoca erano sulla via dell’impoverimento, come anche da giovani e meno giovani, provenienti dai rioni popolari, dagli stadi, dalle scuole o dalle università. La liquidazione riuscì e dopo un paio d’anni il popolo di Seattle si esaurì.
L’evolversi della crisi economica, del resto, aveva azzerato i margini di manovra politico e sociale delle componenti riformiste che illudevano di poter usare tatticamente le istituzioni, magari gozzovigliandoci dentro per portare a casa qualche briciola. Altri scenari, dunque, si sarebbero aperti nell’immediato futuro. Oggi le antinomie di sistema stridono sempre più. Non vi può essere spazio per chi a parole è un incendiario e nei fatti un pompiere (si veda, a tal proposito, la triste parabola dei 5 stelle). Come, nel caso di accelerazioni di piazza, non ci si può permettere la finta estetica dei “disordini” (dall’altra parte le madame menano sul serio!) o della “non violenza gratuita”.
Onorare e fare nostro quanto di positivo il “popolo di Seattle” ha espresso, vuol dire, in primis rigettarne senza reticenze gli errori, le ingenuità, le illusioni. Oggi servirebbe tremendamente un movimento che leggesse nel complessivo il reale, criticando il capitalismo a 360 gradi. Come servirebbe guadagnare la dimensione internazionale della lotta. E servirebbe la generosità nel metterci la faccia ed il corpo in determinate situazioni legate alla strada. Questa volta, però, consapevoli che l’unico altro mondo possibile è solamente quello che si ergerà sulle macerie dell’attuale.
Senza mediazioni né compromessi. Lo dobbiamo a Carlo, ai feriti ed ai pestati di quei giorni, come lo dobbiamo a tutti gli sfruttati, scontenti, e ribelli della terra. Nel loro nome, fra le contraddizioni insanabili dell’odierna società, la Rivoluzione avanza!