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Sulla guerra in Ucraina

Che il bombardamento di Dresda sia stato una grande tragedia nessuno può negarlo. Che fosse realmente una necessità militare pochi, dopo avere letto questo libro, lo crederanno. È stata una di quelle cose terribili che a volte accadono in tempo di guerra, causate da una sfortunata combinazione di circostanze. Coloro che l’approvarono non erano né malvagi né crudeli, ma può darsi benissimo che fossero troppo lontani dall’amara realtà della guerra per comprendere pienamente il terrificante potere distruttivo dei bombardamenti aerei nella primavera del 1945.” Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5

La guerra non è mai un atto isolato.” Carl Von Clausewitz, Della Guerra

In questo maggio 2022 sembra di assistere, in una strana illusione prospettica, al ritorno delle trincee, riverniciate dalla triste tecnologia bellica del ventunesimo secolo. La guerra tra l’esercito russo e l’Ucraina si protrae da quasi tre mesi. Nel marasma di rumore grigio che si fa chiamare informazione giornalistica si susseguono polemiche, accuse e parole d’ordine marce nella bocca di chi cerca un “campo” in nome delle solite astrazioni: Giustizia, Libertà, Antimperialismo. Pace. Morte e crisi sistemica sono due aspetti che si accompagnano a vicenda: la natura mortifera del sistema capitalistico ha come sbocco inevitabile la guerra, ormai non più alternata alla pace ma continua, “totale” come direbbe Von Ludendorff.

Qualsiasi considerazione sulla guerra attuale in Ucraina necessita di ben più che uno slogan o una posizione dettata dalla voglia di apparire “sul pezzo”. Una posizione rivoluzionaria ha bisogno di ben altro che le nevrosi di riciclare cliché politici buoni per apparire “knowledgeable”, per mostrare di essere informato senza aver colto l’essenziale. Dissipare la confusione intorno alla guerra di quest’anno è un’opera politica: toglie le ambiguità, affila le parole e rende possibile un’azione che permetta davvero di influenzare, al netto della controrivoluzione profonda in cui viviamo, il corso degli eventi.

Innanzitutto, occorre partire da delle brevi considerazioni teoriche. La guerra permette non solo di creare un mercato per la produzione di armi o di espandere le “sfere di influenza” dei singoli stati, ma è intimamente legata agli effetti della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. La guerra distrugge macchinari, infrastrutture, tecnologia, e naturalmente distruggeintere popolazioni. La guerra, sia di prossimità che “guerreggiata” dagli eserciti dei paesi coinvolti, può essere usata come rimedio agli effetti della caduta del saggio di profitto, come controtendenza che bilancia il rapporto fra tecnologia e forza-lavoro; può presiedere ad un rinnovato ciclo di accumulazione, locale o globale, come fu d’altronde nell’immediato dopoguerra dei “trenta gloriosi” dal 1945 al 1975. La guerra è il segreto dell’accumulazione capitalistica: quando non è possibile continuarla con mezzi pacifici, sono pronti gli aerei militari, le bombe al fosforo bianco, i droni e un mare di sangue coperto di sporche illusioni.

Eppure una guerra di confronto diretto tra blocchi, una guerra mondiale con degli schieramenti precisi, è un evento che negli ultimi 80 anni è stato reso man mano sempre più obsoleto prima dal deterioramento “disteso” dei rapporti fra USA e Unione Sovietica (con quest’ultima che ha reso possibile, grazie alla sua stessa industrializzazione capitalistica “incompiuta” e implosa nel 1991, l’accumulazione di potere e di influenza del dollaro americano) e poi dai fatti degli ultimi trent’anni, con la potenza americana ritrovatasi sola detentrice del ruolo di “gendarme del mondo” e allo stesso tempo in inesorabile declino relativo a quelle che dovrebbero essere le potenze emergenti dell’imperialismo attuale, in primis la Cina. Ma per quanto ci si possa illudere sull’emergenza di un “mondo multipolare”, fatto di tanti feudi imperialistici differenziati a seconda delle proprie “appartenenze”, bisogna sempre ricordarsi che l’imperialismo non è una “politica degli stati”, ma (come direbbe Lenin) un “capitalismo di transizione”: quando si trapassa un certo punto nel livello di centralizzazione e interdipendenza del Capitale e dei capitali singoli è impossibile tornare indietro.

Quindi una guerra di blocchi, di alleati e di assi, per quanto possa sembrare il contrario, è comunque una remota eventualità, smentita dall’evoluzione economica degli ultimi 80 anni e dal fatto che non ci sia davvero un contendente che possa scavalcare il ruolo di perno che hanno gli Stati Uniti nello scacchiere geostorico globale. Un ruolo del genere implicherebbe, tra le altre cose, la possibilità di iniziare un ciclo di accumulazione rinnovato su scala mondiale, dei nuovi trenta gloriosi magari in salsa “green”. In che contesto si inserisce la guerra guerreggiata dalla Russia in Ucraina, considerando – come abbiamo affermato poc’anzi – che la Russia non costituisce un vero “blocco” antitetico a quello statunitense?

A un livello base di comprensione potrebbe apparire che questa guerra sia combattuta innanzitutto per le materie prime, un po’ come succedeva con i truismi sulle “guerre per il petrolio” guidate dagli americani negli ultimi trent’anni. Bisogna però ricordarsi che il significato del materialismo storico non sta in una determinazione di “cose”: la traiettoria del capitalismo attuale va analizzata non tanto come una sommatoria di elementi separati, come può essere la fame di materie prime o le decisioni politiche dei singoli governi, ma come un integrale di elementi interconnessi legati alla riproduzione e distribuzione di plusvalore.

L’industria e l’economia europea dipendono in misure differenziate dalle importazioni di gas dalla Russia. L’epicentro economico è e sarà la Germania, che com’è ben noto aveva previsto di rifornirsi con il gasdotto Nord Stream II di gas proveniente direttamente dalla Russia passando per il Mar Baltico. Le speculazioni sui futures delle materie prime, già in forte aumento da prima della guerra, sono aumentate vertiginosamente, in particolare su beni di prima necessità come pane, mais, soia. Il prezzo del grano è aumentato di più del 50% a livello mondiale dall’inizio della guerra (attualmente è sui 12 dollari e mezzo a bushel, NdR). Il tutto inserito in un contesto di scarsa redditività del capitale, di anemia del saggio di profitto, di stagnazione del commercio globale e di inevitabili timori per possibili carestie tra i miserabili delle periferie globali del capitalismo. Il fallimento dello Sri Lanka è il primo esempio che rende evidente l’instabilità sociale ventura.

Poi c’è la questione dell’egemonia monetaria. L’ingiunzione del governo russo di accettare solo pagamenti in rubli per le forniture europee di gas (e l’altrettanto artificiale tentativo di imporre uno standard aureo al rublo per evitare la sua svalutazione, svalutazione che in ogni caso pare sia stata sventata) sono parte di un wargame monetario di Mosca nel tentativo di smarcarsi dal dominio finanziario del dollaro. Si può notare di come il prezzo dei bitcoin e delle criptovalute come valute di riserva siano significativamente aumentati ad aprile per poi ridiscendere nel mese successivo con la risalita del rublo, e le prospettive di uno yuan digitale da parte del governo cinese si fanno sempre meno sperimentali.

Le potenze emergenti cercano di far vacillare il dominio del dollaro, senza riuscire a sostituirlo; alla guerra verrà accompagnata sempre di più l’anarchia valutaria a livello mondiale, e la disintegrazione del ciclo economico che dura dalla metà degli anni ’70. Intanto, sul fronte bellico, la infowar russa e quella NATO procedono specularmente alle bombe e ai massacri nel tentativo di “compellere” l’avversario ad agire secondo i propri interessi – a Kharkiv, a Mariupol, a Izium, a Donetsk.

Non staremo in questa sede a riepilogare tutti gli eccidi, tutte le atrocità e tutti gli spasmi propagandistici che stannocaratterizzando e continueranno a caratterizzare questa guerra. Non farebbe che aggiungere orrore mentre migliaia di proletari ucraini e russi muoiono al fronte in una guerra, come direbbe una canzone dei Kino, “senza una ragione particolare”. I residui anestetizzati di chi vuole vedere partigiani in ogni dove si scervellano per votarsi all’assassino migliore: con Zelenskyy o con Putin? Con la dottrina Gherasimov o con la compellence americana? Con il gruppo Wagner o con il Battaglione Azov, con i nostalgici dell’impero di Nicola II o con il nazionalismo ucraino? Non vi è che l’imbarazzo della scelta nel mercato delle “resistenze”.

Da parte nostra, invece, troviamo che l’internazionalismo non sia una frase fatta buona per dare una verniciata di rosso a una retorica spenta: sebbene l’imperativo di Lenin sul “trasformare la guerra imperialista in guerra civile” sia ormai obsoleto (e del tutto irrealistico nella guerra attuale, dato che nelle condizioni in cui ci troviamo è piuttosto aut guerra imperialistica, aut guerra civile: la guerra del capitale va fermata prima che scoppi) rimane la necessità di sabotare lo sforzo bellico sul fronte interno e con tutti i mezzi disponibili. Perché l’unica guerra che occorre preparare è quella degli sfruttati e dei rivoluzionari del mondo contro il tramonto di una società che trascina nel baratro della sua rovina chiunque senta il suono delle sue illusioni, e che va fermata al più presto possibile con tutta la forza che abbiamo: non c’è più tempo per attendere.

Lattanzio occupato: ad maiora!

Con l’ondata di occupazioni scolastiche che prosegue dall’inizio dell’autunno, sembra che un’aria nuova stia soffiando tra i licei romani. Un’aria fatta di rivendicazioni e manifestazioni che chiedono la fine delle problematiche didattiche e strutturali accumulate dall’inizio della pandemia, ma anche una richiesta sempre maggiore di autodeterminazione da parte degli studenti stessi, talvolta in modalità più spontanee rispetto alle ondate studentesche passate. 

L’altroieri alla lista delle occupazioni di Roma si è aggiunto anche il Lattanzio, istituto di istruzione superiore che si trova in Via Teano, nella zona est di Roma. Gli studenti del liceo (avendo chiesto il nostro intervento per aiutarli con l’occupazione) hanno potuto constatare sia la nostra materiale disponibilità a recarci nel liceo che il nostro interesse attivo, politico per i loro sforzi, nonostante abbiano anche loro da poco sgomberato.

In effetti non possiamo che essere colpiti positivamente dalla spontaneità che gli studenti del Lattanzio hanno saputo esprimere in un liceo-gabbia di migliaia di studenti: nessun collettivo, nessuna organizzazione formale, nessun’esperienza politica precedente. Possiamo facilmente dire che è stata proprio l’assenza dei residui ammuffiti della politica studentesca tradizionale ad aver spinto ad una maggiore consapevolezza dei compiti pratici che comporta un’azione del genere.

Al di là delle mancanze infrastrutturali e di manutenzione del liceo (termosifoni che non funzionano, un bagno per undici classi e centinaia di studenti etc.) il problema principale che è emerso da questa occupazione è, come dicono gli studenti, legato alla preside ad interim, che similmente ad altri dirigenti scolastici nei licei di periferia in Italia e a Roma si comporta in modo autoritario, autoreferenziale e produttivistico, oltre che nei confronti agli studenti anche rispetto all’istituto e al personale scolastico stesso, privando gli studenti di qualsiasi mediazione per i loro problemi e con una presenza a scuola limitata a due giorni a settimana.

Ora, per noi e per il nostro orizzonte rivoluzionario, ogni azione che muove per una rottura della routine politica studentesca e, specialmente in questa città, dei racket politici che ne fanno parte, anche se finisce dopo qualche giorno, non può che essere accolta a braccia aperte, al di là di quello che gli studenti pensano di loro stessi. 

Ci auguriamo quindi che una maggiore consapevolezza e una nuova prassi politica studentesca possa sgorgare da questa esperienza così come da altre occupazioni in questa città. Per una gioventù ribelle, cosciente, rivoluzionaria!

Cronaca di uno sfratto rinviato e di un quartiere solidale

Sono le 7:30 di mattina al civico 31 di Via Giuseppe Chiovenda, l’orario in cui è stato dichiarato l’arrivo dell’ufficiale giudiziario con tanto di forza pubblica, per eseguire lo sfratto di una delle tante persone che abitano occupando alcuni degli 8000 appartamenti lasciati sfitti dalla fondazione Enasarco, nota associazione commerciale romana attualmente a rischio commissariamento e con un largo patrimonio immobiliare dismesso.

L’intenzione è quella di gettare in mezzo alla strada una madre con due figli di 10 e 12 anni, senza proporre soluzioni alternative, dopo 7 anni di occupazione nell’appartamento e di conseguente radicamento nel quartiere, con i propri affetti ed amicizie ormai consolidate. Rapporti che hanno creato una rete solidale che difatti non si è fatta attendere nel radunarsi in un picchetto per impedire lo sfratto, con il supporto di vari compagni e compagne, degli inquilini affini e del movimento romano per il diritto alla casa.

Sono ormai le 10, e con un larghissimo ritardo si presentano due membri delle forze dell’ordine, un delegato dell’Enasarco e l’ufficiale, ma si ritrovano ad affrontare un presidio ben determinato, nonché ben partecipato (siamo nell’ordine delle quaranta/cinquanta persone), e subito avviene un confronto verbale con la signora circondata dai propri familiari che non esita a gridare tutta la sua frustrazione in faccia al funzionario, mentre intorno si può palpare la tensione della folla verso le guardie ed il delegato dell’ente. Il tutto avviene fuori dai cancelli del complesso di palazzine, di fronte ad un edicola e ad un bar molto frequentato nella parte opposta della strada.

Come conseguenza della situazione, il picchetto si fonde con gli umori degli abitanti del quartiere, che si ritrovano di fronte la scena e iniziano a farsi sentire. “Sfrattate i poveracci in questo periodo difficile, che schifo”, “andatevene via”. Alcuni sembrano molto accalorati verso l’inviato dell’Enasarco: “avete lasciato migliaia di appartamenti vuoti”, “maledetti palazzinari” e più si dà sfogo alla rabbia più questa sale, tant’è che anche le forze dell’ordine decidono di restare qualche passo indietro. Ma a smorzare la situazione c’è l’agire composto dell’avvocato che segue la situazione della signora, e che interviene impugnando quello che probabilmente diventerà un grosso precedente giuridico in Italia, e cioè un atto ufficiale emesso dall’ONU in cui si esige la sospensione dello sfratto, in quanto verrebbero violati i trattati sui diritti umani ai quali anche l’Italia ha sottoscritto.

In ogni caso la situazione resta ancora confusa, e il confronto tra la signora e l’ufficiale giudiziario diventa molto livoroso (“io sono 7 anni che abito qui dentro”, “embè so pure troppi”). Dopo l’alterco la signora ha un malore, rendendo necessario l’intervento del 118. Nell’attesa dell’ambulanza viene portata da alcuni solidali nel giardino del palazzo, lontana dalla situazione di tensione sempre più crescente tra il picchetto e i suoi nemici, in cui continuano a volare ingiurie da entrambe le parti e si susseguono momenti di litigio sempre più densi.

All’arrivo dei sanitari i due agenti di polizia ne approfittano per seguirli ed oltrepassare i cancelli della palazzina, fino ad arrivare di fronte alla scala dove la signora dimora e dove stava ricevendo aiuto dai solidali del picchetto. Sembra quasi che le guardie vogliano cogliere l’occasione per introdursi nella scala, ma il presidio coglie la situazione al volo e qualcuno si schiera a muro di fronte alle porte del palazzo: niente da fare per la polizia, gli tocca retrocedere.

L’ambulanza è ormai andata via, avvengono le ultime disquisizioni tra l’avvocato e l’ufficiale giudiziario ed il verdetto finale regala alla famiglia e ai solidali una piccola grande vittoria: lo sfratto viene rinviato al 3 dicembre. Risultato da non sottovalutare, visto che non è il primo: questa è in realtà la seconda volta che lo stesso sfratto viene rinviato, sempre grazie a un presidio avvenuto quest’estate, meno risonante mediaticamente ma comunque ben riuscito.

Noi ci auguriamo che si continui su questa via: che sempre più sfratti vengano ostruiti dalla determinazione di chi si oppone lottando alla speculazione immobiliare, e che sugli interessi dei palazzinari, dei rappresentanti di commercio e del Capitale prevalgano non tanto le astrazioni giuridiche sul diritto umano all’abitare dell’ONU, quanto l’affermazione fisica della forza nella lotta proletaria per l’abitare.

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Spillover e Capitalismo

Che cos’è che unisce tra di loro fenomeni come la deforestazione massiccia del pianeta, il bracconaggio, l’eredità coloniale in Africa occidentale, l’estrattivismo e l’esplosione numerica della specie umana nell’ultimo secolo? Diremmo senza dubbio il Capitale, e tra le conseguenze dell’espansione apparentemente inarrestabile della mercificazione della vita umana, che imprime le sue stimmate su tutti questi fenomeni, vi è la nascita di nuove e sempre più distruttive pandemie, ormai consustanziali allo sviluppo del Capitale stesso.

“Spillover” di David Quammen è un libro che parla di pandemie. In particolare, parla di come nuovi agenti patogeni di origine virale (ma anche batterica, come è spiegato nel caso dei plasmodi della malaria) compiano il loro “salto” infettando gli esseri umani. Salta agli occhi che il motivo per cui questo libro è stato ripubblicato nel 2020 è dovuto alla pandemia di Covid-19; essa, a distanza di più di sette anni dall’anno di pubblicazione di Spillover, ha reso universalmente urgenti i temi di questo libro, e potremmo dire anche che il libro di Quammen ha creato una piccola crepa nella narrazione dei disastri “naturali” come fatti non immediatamente sociali, come fatti “naturali”.

A leggerlo, il libro è curiosamente strutturato come una sorta di romanzo autobiografico a tinte noir più che come un saggio di divulgazione scientifica in senso stretto, ma andrebbe considerato sia come un saggio che come un romanzo senza che un aspetto prevalga sull’altro; “Spillover” è infatti ricolmo di dati e spiegazioni di teoria epidemiologica così come di aneddoti, racconti e particolari narrativi a cui attinge la teoria che l’autore cerca di spiegare.

Il concetto chiave è quello di “zoonosi”, ovvero il “salto” di specie che effettuano i nuovi patogeni. Come avviene questo salto? Nel palcoscenico delle epidemie entrano in scena due personaggi: le specie serbatoio, che si sono adattate ad una presenza non distruttiva (o meno distruttiva) di un certo patogeno, e quelle di amplificazione, che accidentalmente si prestano da cassa di risonanza alla diffusione del patogeno tra gli esseri umani. I virus, in particolare quelli a RNA, hanno grandi potenzialità di generare mutazioni e dar vita a potenziali spillover da una specie a un’altra; sono “iperoggetti” ambigui, per usare un concetto di Timothy Morton, e del tutto dipendenti dai loro ospiti per la loro espansione, esseri in bilico tra vita e non-vita. Va notato di come il concetto di “ecologia” venga usato nel libro al di fuori del suo uso generico, per spiegare queste mutazioni, le mutazioni delle specie che li ospitano e quelle dell’ambiente in cui queste specie operano.

In “Spillover” viene mostrato empiricamente di come gli squilibri negli ecosistemi terrestri causati dallo sviluppo capitalistico, specie quelli dovuti alla deforestazione (gli esempi vanno dall’Australia alla Cina meridionale e all’Africa occidentale), abbiano stravolto e reciso in modo distruttivo le connessioni che esistevano tra la specie umana ed il resto del mondo animale, e l’aspetto più importante di questo stravolgimento riguarda gli equilibri con le moltitudini di patogeni che queste specie ospitano. Tra queste specie, ed indiziati principali di quasi tutti i nuovi virus emergenti, ci sono le varie specie di pipistrelli che popolano il pianeta.

Tra le zoonosi esplorate nel libro (il virus Hendra dei cavalli in Australia, l’epidemia di Nipah in India e in Bangladesh, la SARS a Hong Kong, le varianti della malaria, Ebola e Marburg in Africa Occidentale e l’HIV/AIDS) spicca proprio il capitolo sull’HIV, che concentra quasi tutti i punti concettuali di Spillover.

La storia che David Quammen racconta è quella delle manovre sanitarie di massa che il colonialismo europeo impose in Gabon, Congo e Camerun nella prima metà del ‘900, e di come in queste manovre fossero state sistematicamente applicate siringhe usate per via delle ristrettezze economiche, dell’assenza di produzione in serie di quest’ultime e (non viene direttamente detto, per quanto venga implicato) del pregiudizio razzista che confinava milioni di individui allo status di esseri inferiori rispetto ai bianchi. HIV-1, per come viene raccontato in Spillover e come afferma il consenso scientifico, ha avuto origine in un’area che corrisponde all’odierno Camerun sudorientale; il suo spillover è avvenuto più meno all’inizio del ‘900 (precisamente nel 1908, secondo gli studi di Micheal Worobey e Beatrice Hahn) da uno scimpanzé infetto con una variante mutata del virus autoimmune degli scimpanzé, ovvero SIVcpz. La sua diffusione, dapprima endemica in Camerun e nell’allora Congo Belga, con l’aiuto degli spostamenti di individui infetti nelle grandi città coloniali come Brazzaville e Léopoldville (ora Kinshasa), delle manovre sanitarie coloniali citate precedentemente, della distruzione degli habitat delle scimmie a causa del bracconaggio e dei problemi economici seguiti alla decolonizzazione del Congo negli anni ‘60, si è generalizzata dapprima nei tecnici haitiani andati a lavorare in Congo dopo l’indipendenza, e da Haiti l’HIV si è espanso negli USA e poi ovunque, mietendo decine di milioni di vittime.

Tralasciando i vari virus autoimmuni delle scimmie (è interessante la parte sui SIV dei cercocebi e dei cercopitechi, e di come inizialmente si cercasse l’origine di HIV-1 in quei tipi di scimmia) e la differenziazione tra HIV-1 e HIV-2, quello che colpisce della storia dell’HIV-1 è di come esso sia stato un’accumulazione di molteplici potenzialità distruttive causate dall’azione sociale umana; in un certo senso esso è il simbolo di tutte le zoonosi, nonostante la natura peculiare dei lentivirus di cui fa parte il virus che causa l’AIDS, e nonostante le differenze con le ben più mutevoli forme di coronavirus, tra cui quello della pandemia in corso. Le zoonosi ci ricordano che non esiste soluzione di continuità tra la natura sociale e quella organica, nonostante la “mineralizzazione” resa inevitabile dalla riproduzione allargata del Capitale, e che uno dei compiti del comunismo sarà quello di annullare il movimento che ha portato gli individui e la specie a distruggere la stessa natura di cui sono parte e totalità, reintegrando entrambi in un piano razionale di vita.

Il libro si conclude con una parte in cui si citano le esplosioni (outbreak) di certe specie di insetti, facendo l’esempio dei bruchi tenda, e paragonandole con l’uomo. L’espansione della specie umana è stata il più grande outbreak che la biosfera abbia conosciuto; per biomassa totale, gli esseri umani superano qualsiasi altra specie sulla Terra, ad eccezione delle formiche e dei krill. Il capitalismo va continuamente a scontrarsi con i limiti biologici della sua espansione; la pressione demografica e economica della specie, privata del suo nesso naturale ed oppressa dalle necessità di una vita insensata, disbosca, si agglomera in città affollate, uccide specie serbatoio, estrae risorse per il profitto capitalistico e genera i presupposti per nuove pandemie, che siano lentivirus, coronavirus o virus come l’Ebola o Nipah.

Se un tempo la produzione di acciaio era il simbolo della mineralizzazione del pianeta, adesso l’inorganico è la norma ovunque. Viviamo davvero nell’”antropocene”? Al di là del di senso di quest’idea (si può definire quest’era come “l’era degli esseri umani” partendo dal movimento irrazionale del mercato capitalista?), la situazione odierna è una in cui per l’infelicità generale viene massimizzata la distruzione delle riserve organiche terrestri, preparata una catastrofe ambientale con il pilota automatico e frenate le potenzialità di sviluppo sociale e individuale, se una pandemia non uccide nel frattempo milioni di persone oppure una crisi catastrofica distrugge i presupposti dell’economia “normale”, come abbiamo visto in quest’anno. Il Capitale è lavoro morto che domina sul lavoro vivo, è dominio dell’inorganico che schiaccia l’organico.

Spillover non è un libro di teoria rivoluzionaria (e l’autore sembra essere ottimista su una possibile riforma del sistema) ma è un lucido esempio di letteratura scientifica che, senza volerlo, capitola di fronte al comunismo e prepara la necessità di un’azione per il superamento della più irrazionale delle società umane.

Sullo sgombero del Nuovo Cinema Palazzo

A San Lorenzo, a poche centinaia di metri da piazza dei Sanniti, sta per sorgere la sede romana di The Student Hotel, un franchise di studentati di lusso che ha già messo piede a Bologna e a Firenze. La sagoma dell’edificio, che dovrebbe essere costruita – non a caso – al posto dell’Ex-Dogana, svetta nei rendering come una sorta di gated community isolata dal resto del quartiere. Nel frattempo, stamattina, le forze dell’ordine hanno sgomberato il Nuovo Cinema Palazzo a Piazza dei Sanniti, dopo che a metà ottobre era stata staccata la luce e l’acqua allo stabile. Cos’hanno in comune questi due fatti? Prendiamo il Cinema Palazzo: da alcuni anni la proprietà giudiziaria del palazzo, la Area Domus S.r.l., vista la sua mancata riconversione in casinò dopo il 2011, ha provato a rivalersi in più modi contro gli occupanti, con le buone (proposte di vendita al municipio, al comune e alla regione) e con le cattive (polizia più o meno privata a mettere sigilli allo spazio).  

Nulla di nuovo sotto il sole: sono anni che a Roma, dalla delibera Marino-Nieri del 2013 all’attuale governo del M5S, si agita lo spauracchio dell’”illegalità” e del degrado per sgomberare spazi e luoghi di aggregazione che seppur di poco si sottraggono alle logiche del risiko immobiliare, risiko che in quartieri come San Lorenzo porta a un sempre maggiore inaridimento sociale, nonché espressivo e “culturale”. Piano sequenza: la videocamera si sposta su un diagramma che mostra i prezzi mediani delle case a Roma negli ultimi cinque anni. Si può osservare di come il valore degli immobili romani per metro quadro sia progressivamente calato; il settore immobiliare è in profonda crisi da anni. 

Ed è in questa prospettiva che la propaganda giornalistica e politica sul decoro contro il degrado, la costruzione di uno studentato di lusso pieno di inutili chincaglierie pseudo-creative e le impazienze dei palazzinari vanno inquadrate: anche in mezzo ad una pandemia e ad una crisi che sta distruggendo la riproduzione “normale” del capitalismo occorre fare pressione sulla città perché vengano trovate nuove forme di valorizzazione immobiliare. A scapito di chi? A scapito di tutti, ma soprattutto a scapito di chi ne è più vulnerabile: lavoratori, studenti, senzatetto, musicisti underground.  

Pare che la proprietà voglia finalmente trasformare il cinema in casinò. Sarebbe in un certo senso la campana a morto per San Lorenzo, ed un ulteriore tassello nella dégringolade, nel disfacimento dei movimenti sociali a Roma. Il velleitarismo dei negoziati con le istituzioni, con il municipio o con il comune si mette a nudo; nell’isolamento e nella disgregazione portate dalla pandemia è tempo di fare della città un campo di battaglia per un modo radicalmente diverso di vivere.

Tesi sul 25 Aprile

Introduzione

Il 25 Aprile è di nuovo alle porte, e tutte le forze politiche più o meno riformiste cominciano organizzare i loro preparativi per festeggiare la Liberazione dal fascismo, quest’anno incoraggiate da un nuovo frontismo nato per combattere i rappresentanti più o meno farseschi e repellenti del governo attuale.

La resistenza e l’antifascismo, per come vengono presentati dall’oleografia post-bellica e dalla retorica della sinistra, dei socialdemocratici così come dei militanti del “Movimento”, sono i Valori fondanti che devono essere dogmaticamente seguiti da chiunque; mettere in discussione questi Valori, anche per i “militanti” più temerari e battaglieri, è fuori luogo, è un peccato che vale, se non la scomunica, se non altro il sospetto di molti. Eppure, nella pochezza politica attuale, è facile vedere che molti di coloro che, specialmente nel “movimento”, ripetono e si battono per diffondere questa stanca fraseologia, lo fanno per mancanza d’altro: d’altronde il fascismo e il rossobrunismo aperto, e le forze che a questo fascismo più o meno truce ammiccano, hanno già fatto il loro lavoro nel porsi come alternativa “anticonformista”, “ribelle” e così via blaterando.

Cosa può esserci al di fuori di questa battaglia fra le rane e i topi che è la contesa borghese nel 2019? Occorre innanzitutto stabilire una (breve) premessa metodologica, storica e politica sul perché, dalla nostra prospettiva, la resistenza è stata una sconfitta per il proletariato internazionale e italiano, e l’antifascismo, se con questo termine intendiamo un blocco di vari partiti e classi per la difesa di garanzie democratiche minacciate dai movimenti fascisti, una strategia che non ha nulla a che vedere con una lotta effettiva alla reazione e al fascismo, ma è stata e continua ad essere una strategia interclassista per aggiogare il proletariato alla difesa dello Stato borghese.

I

Nella visione che viene di solito associata al fronte antifascista, il fascismo è un monolite quasi unicamente ideologico: ha i suoi codici culturali, ha le sue strategie comunicative, i suoi simboli e i suoi legami più o meno decifrabili: ci si ritrova soltanto a combattere contro dei simboli o dei gruppi di persone più o meno odiose piuttosto che attaccare la causa profonda che favorisce il riemergere di posizioni reazionarie. Il fascismo quindi diventa un’aberrazione della vita democratica: anche se alcuni antifascisti possono tentare di evidenziare di come il loro antifascismo mostri il carattere “fascista” anche della democrazia borghese – cosa indubbiamente vera se vista da una prospettiva diversa – nella pratica il carattere di una politica del genere li pone sul terreno della difesa della democrazia.

II

Ma il capitalismo odierno, Moloch astratto, entropico e centralizzatore, è un sistema giunto ad una situazione in cui il suo funzionamento è fuori controllo: per rimediare a questa mancanza di controllo, lo Stato deve svuotarsi del suo contenuto liberale (e di ogni “politica”) e farsi autoritario, centripeto e repressivo, possibilmente adottando ideologie che legittimino il suo ruolo di difesa del capitalismo, e rivendicando la sua azione nell’esclusione delle minoranze sacrificabili per il “Popolo”, oltre a continuare a vigilare per difendere gli interessi della borghesia – anche quando sembra più “democratico” e liberale.

III

Lenin, riprendendo il Marx del terzo libro del Capitale e gli studi sul capitale finanziario di Rudolf Hilferding, aveva chiamato questa tendenza – embrionale agli inizi del ‘900 – come “Imperialismo” nel suo celebre libro dallo stesso titolo: allora era l’epoca dei trust e dei primi monopoli, e la Prima guerra mondiale (nel 1916) era in pieno svolgimento; in questo contesto Lenin affermò che il capitalismo fosse ormai “un involucro a cui non corrisponde più il contenuto”, perché lo sviluppo delle forze produttive, frenato e distorto dal persistere del capitalismo, si rivolgeva ormai contro sé stesso.

IV

Nell’anno corrente, al di là di qualunque valutazione critica dell’opera di Lenin o del concetto di imperialismo, possiamo constatare la realtà della società in cui viviamo: una società che riposa su una montagna di debiti delle aziende e dei governi, che giace sotto una mole di denaro fittizio che vale decine di volte il PIL mondiale, in cui i governi si dibattono per scongiurare una recessione che tutti danno per scontato che avverrà prossimi anni, in cui miliardari aspettano di poter mandare navicelle per l’esplorazione di Marte sperando di poter valorizzare il Capitale nello spazio, e in cui ad un’accelerazione della tecnologia e delle capacità dell’intelligenza artificiale corrisponde una relativa stagnazione della globalizzazione del Capitale. Estrarre (ed indirizzare) plusvalore a livello globale è diventato un compito sempre più difficile, e centinaia di milioni di persone a livello globale sono ormai rese inutili al processo produttivo stesso. Il tentativo di una parte della borghesia di invertire questo processo, in cui la Nazione e la stabilità del ciclo di accumulazione si dissolvono sotto il peso delle contraddizioni interne al sistema, e ritornare ad un ciclo “sano” di estrazione del plusvalore, specialmente nel caso dei paesi di vecchia industrializzazione come quelli europei o gli Stati Uniti, corrisponde politicamente al blocco che si fa chiamare “sovranista” e che non a caso riprende più o meno consciamente una parte delle rivendicazioni del fascismo storico.

V

Giova ricordare che il fascismo, emerso inizialmente da un insieme di spinte propulsive provenienti dal sindacalismo anarchico, da una parte della piccola borghesia studentesca, dai socialisti interventisti durante la prima guerra mondiale (tra cui lo stesso Mussolini), dai soldati irredentisti che protestavano contro la “vittoria mutilata” italiana e da varie forze provenienti da destra (ma specialmente da sinistra), non fu, come pensava Gramsci e come pensano tuttora molti antifascisti, una reazione di “ceti retrivi” agrari volta a restaurare condizioni sociali premoderne, ma fu un movimento il cui principale sostegno economico venne dalla grande borghesia industriale e finanziaria, come testimoniato dai bilanci del PNF durante gli anni ’20, e appoggiato dallo Stato e dalla borghesia, agraria e urbana, per distruggere l’avanzata rivoluzionaria del proletariato nelle campagne e nelle città, così come oggi il cosiddetto “sovranismo” aspira ad essere una copia in sedicesimo del fascismo storico.

VI

Con l’inizio delle azioni squadristiche, concentrate inizialmente nei centri agrari del Nord Italia (con le prime azioni eclatanti a Bologna e nelle campagne lombarde) e poi estese a tutto il paese, cominciarono naturalmente a formarsi movimenti di opposizione alle azioni delle squadre fasciste: in prima linea, data la politica di collaborazione nei confronti del governo voluta dal partito socialista (governo che nel giro di un anno passerà da Giolitti a Bonomi ed infine a Facta), vi fu il neo-formato partito comunista d’Italia, che cominciò immediatamente a preparare un’organizzazione militare illegale per organizzare l’offensiva armata contro i fascisti, e gli arditi del popolo, ovvero un fronte di militanti eterogenei accomunati da un’estetica che si rifaceva all’arditismo del Regio Esercito italiano (il fondatore, Argo Secondari, era stato un tenente del battaglione studenti degli arditi durante la prima guerra mondiale) ed una pratica che in parte anticipava quella dei fronti antifascisti successivi.

VII

Si è variamente parlato del fatto che per ordine del comitato centrale del Partito, allora presieduto da Bordiga, venne posto un veto ai militanti del partito nell’unirsi agli Arditi del Popolo, ed in generale nel partecipare a qualunque blocco tra vari partiti contro il fascismo, vista l’esistenza di un’azione armata autonoma del PCd’I contro le camicie nere: generazioni di storici e d’ideologhi stalinisti e gramsciani si sono sbracciati per attribuire la vittoria del fascismo ad una decisione “settaria” e arbitraria da parte del partito comunista, quando invece le condizioni per la vittoria definitiva del fascismo furono probabilmente poste dal fallimento dei moti sindacali dell’estate del ’22, più che dalla marcia su Roma, che fu una “commedia fra forze borghesi” come disse poi lo stesso Bordiga.

VIII

Dopo la vittoria del fascismo, accelerata dall’omicidio di Matteotti e dalla promulgazione delle “leggi fascistissime” del 1925, il campo di battaglia della reazione fascista si spostò prima in Germania e poi in Spagna. In quest’ultimo contesto i preamboli dell’affermazione del franchismo furono posti dalla repressione brutale dello sciopero dei minatori asturiani nell’Ottobre del 1934, sotto il governo di Alejandro Lerroux, e dall’ascesa politica della Falange nel triennio 1934-1936. Nel 1936 il Fronte Popolare, appoggiato da una coalizione di partiti che includeva anche il POUM trotskista, vinse le elezioni: nonostante l’astensionismo teorico degli anarchici, la vittoria fu supportata, notoriamente, anche dalla CNT. Ed è questa vittoria il pretesto che scatena la guerra civile degli anni successivi: a luglio dello stesso anno, quattro falangisti uccidono il tenente di polizia Josè Castillo.

IX

È facile notare di come, anche senza ricapitolare tutti gli episodi della guerra civile spagnola, una battaglia che ebbe momenti di vera lotta di classe e che fu accompagnata da espropri e collettivizzazioni frenetiche da parte dei proletari e dei contadini, divenne presto una guerra per procura tra potenze diverse: il blocco dei repubblicani, che a questo punto incluse, specialmente a Barcellona, il POUM, la FAI (la federazione anarchica iberica) e la CNT, accettò presto l’aiuto dell’Unione Sovietica, mentre i nazionalisti di Franco furono aiutati militarmente dalla Germania, dall’Italia e dal Portogallo salazarista. Come conseguenza di questo aiuto, l’Unione Sovietica cominciò a fagocitare, militarmente ed economicamente, il blocco repubblicano, nonostante il continuo sostegno (con relativi sacrifici chiesti al proletariato spagnolo) di anarchici e trotskisti al Fronte: al posto del primo ministro Francisco Largo Caballero, venne nominato nel 1937 Juan Negrin, un socialista vicino al PCE stalinista, e molti dei militanti anarchici, trotskisti o semplicemente non stalinisti nel Fronte Popolare vennero calunniati come controrivoluzionari e assassinati, come accadde a Camillo Berneri nello stesso anno.

X

Dopo i tentativi fallimentari di Negrin e degli stalinisti di salvare la repubblica “antifascista”, arrivando addirittura a smobilitare le brigate internazionali e a trasferire la capitale a Barcellona, la tenuta militare del fronte popolare si disfece, e nei primi mesi del1939 cadde l’ultimo avamposto repubblicano in Catalogna, consegnando la Spagna al nuovo potere della falange franchista. La guerra civile spagnola, nei suoi sviluppi, anticipò quindi le dinamiche che caratterizzarono la ventura Seconda guerra mondiale, e fornì la prima testimonianza del fallimento politico dei blocchi antifascisti, nonché della loro inutilità per il proletariato internazionale.

XI

La Seconda guerra mondiale scoppia, quindi. L’Italia fascista, dopo tre anni di perdite militari, si vide invasa dagli eserciti degli anglo-americani sbarcati in Sicilia. Il maresciallo Pietro Badoglio, com’è noto, sotto ordine del re depose il governo di Mussolini, sciolse formalmente il PNF e formò un governo di transizione il 25 luglio del 1943 per trattare con gli Alleati che avanzavano lungo il Sud Italia. L’8 Settembre arriva l’armistizio: l’Italia si arrende e si consegna alle forze alleate, mentre Mussolini fugge al Nord per fondare la repubblica di Salò. Appena dopo l’armistizio, la Wehrmacht invade l’Italia centro-settentrionale, compresa Roma, e comincia le sue rappresaglie contro ebrei e dissidenti politici, e il 9 Settembre viene fondato il CLN, presieduto dal PCI di Togliatti, dalla nascente DC e da liberali e socialisti. Come per la Spagna, nella Seconda guerra mondiale si profilarono anche in Italia le dinamiche di una guerra per procura.

XII

Ma anche la “resistenza” che il CLN voleva dirigere sfuggiva dal controllo totale da parte dell’ideologia partigiana: a Roma, ad esempio, i militanti del PCI avevano un peso del tutto minore rispetto alle azioni di Bandiera Rossa, che raggruppava tra gli altri (nonostante una forte componente stalinista) una parte di quei comunisti che ricordavano l’intransigenza rivoluzionaria del PCd’I delle origini, e aveva tra le sue roccaforti alcune borgate romane (il Quadraro e il Quarticciolo in particolare). Per questo motivo, sull’esempio spagnolo, i PCI e i suoi scherani cominciarono a calunniare come agenti fascisti e a perseguitare chiunque si ponesse in una prospettiva rivoluzionaria e internazionalista nella lotta al nazismo, compresi, oltre ad alcuni militanti di Bandiera Rossa, gli anarchici e i pochi comunisti internazionalisti che agitavano per la rottura del blocco con l’Unione Sovietica, tra cui Fausto Atti e Mario Acquaviva, entrambi uccisi dagli stalinisti nel 1945.

XIII

A resistenza finita, e glorificati, come ebbe a dire Togliatti, i partigiani del tricolore sollevato dal fango in cui l’aveva gettato il fascismo, l’Italia fu “liberata” il 25 Aprile quando la costola settentrionale del CLN proclamò, su indicazione di Sandro Pertini, lo “sciopero generale insurrezionale” nei territori ancora occupati dai nazifascisti. La storia seguente è cosa risaputa: il PCI, sotto la mano di Togliatti, concesse l’amnistia a migliaia di fascisti nel 1946 per accreditarsi agli occhi degli americani e del governo post-bellico, l’antifascismo e la resistenza furono integrati nelle parate patriottiche del nuovo Stato democratico, e la “costituzione più bella del mondo”, tra ipocrite concessioni e garanzie di libertà, faceva dell’antifascismo la giustificazione del nuovo ciclo di accumulazione del Capitale italiano.

XIV

In sintesi, l’antifascismo e l’ideologia della resistenza hanno avuto il ruolo di sopprimere ogni moto indipendente da parte del proletariato, in qualunque forma si fosse presentato storicamente. È importante, in tal senso, sottolineare di come la condizioni politiche per l’ascesa dei regimi fascisti furono poste dai governi liberali e “antifascisti”, come il governo di Giolitti e di Nitti in Italia, quello Azaña-Caballero-Negrin in Spagna e quello dei socialdemocratici in Germania: tutti i governi, a prescindere dalla facciata democratica che possono darsi, devono ballare al ritmo di un Capitale sempre più “fascista” e onnipervasivo.

XVII

Inoltre, se guardiamo al presente, nonostante gli appelli alla resistenza e alla formazione di nuovi partigiani contro i gruppi fascisti nelle nostre città, vediamo che a questi appelli raramente corrisponde un’azione degna di nota: questo succede, tra gli altri motivi, perché la parola d’ordine della resistenza è una parola di per sé disfattista e regressiva; i rivoluzionari devono contrapporre a questo indirizzo la opposta consegna dell’offensiva contro i fascisti, il Capitale e i suoi scherani, di qualunque schieramento politico, tutti unitamente reazionari contro la tempesta rivoluzionaria e liberatrice, germe di un nuovo modo di vita della specie e degli individui e sola possibilità di fermare il futuro catastrofico che la società, inibendoci, ci offre.