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Sulla guerra in Ucraina

Che il bombardamento di Dresda sia stato una grande tragedia nessuno può negarlo. Che fosse realmente una necessità militare pochi, dopo avere letto questo libro, lo crederanno. È stata una di quelle cose terribili che a volte accadono in tempo di guerra, causate da una sfortunata combinazione di circostanze. Coloro che l’approvarono non erano né malvagi né crudeli, ma può darsi benissimo che fossero troppo lontani dall’amara realtà della guerra per comprendere pienamente il terrificante potere distruttivo dei bombardamenti aerei nella primavera del 1945.” Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5

La guerra non è mai un atto isolato.” Carl Von Clausewitz, Della Guerra

In questo maggio 2022 sembra di assistere, in una strana illusione prospettica, al ritorno delle trincee, riverniciate dalla triste tecnologia bellica del ventunesimo secolo. La guerra tra l’esercito russo e l’Ucraina si protrae da quasi tre mesi. Nel marasma di rumore grigio che si fa chiamare informazione giornalistica si susseguono polemiche, accuse e parole d’ordine marce nella bocca di chi cerca un “campo” in nome delle solite astrazioni: Giustizia, Libertà, Antimperialismo. Pace. Morte e crisi sistemica sono due aspetti che si accompagnano a vicenda: la natura mortifera del sistema capitalistico ha come sbocco inevitabile la guerra, ormai non più alternata alla pace ma continua, “totale” come direbbe Von Ludendorff.

Qualsiasi considerazione sulla guerra attuale in Ucraina necessita di ben più che uno slogan o una posizione dettata dalla voglia di apparire “sul pezzo”. Una posizione rivoluzionaria ha bisogno di ben altro che le nevrosi di riciclare cliché politici buoni per apparire “knowledgeable”, per mostrare di essere informato senza aver colto l’essenziale. Dissipare la confusione intorno alla guerra di quest’anno è un’opera politica: toglie le ambiguità, affila le parole e rende possibile un’azione che permetta davvero di influenzare, al netto della controrivoluzione profonda in cui viviamo, il corso degli eventi.

Innanzitutto, occorre partire da delle brevi considerazioni teoriche. La guerra permette non solo di creare un mercato per la produzione di armi o di espandere le “sfere di influenza” dei singoli stati, ma è intimamente legata agli effetti della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. La guerra distrugge macchinari, infrastrutture, tecnologia, e naturalmente distruggeintere popolazioni. La guerra, sia di prossimità che “guerreggiata” dagli eserciti dei paesi coinvolti, può essere usata come rimedio agli effetti della caduta del saggio di profitto, come controtendenza che bilancia il rapporto fra tecnologia e forza-lavoro; può presiedere ad un rinnovato ciclo di accumulazione, locale o globale, come fu d’altronde nell’immediato dopoguerra dei “trenta gloriosi” dal 1945 al 1975. La guerra è il segreto dell’accumulazione capitalistica: quando non è possibile continuarla con mezzi pacifici, sono pronti gli aerei militari, le bombe al fosforo bianco, i droni e un mare di sangue coperto di sporche illusioni.

Eppure una guerra di confronto diretto tra blocchi, una guerra mondiale con degli schieramenti precisi, è un evento che negli ultimi 80 anni è stato reso man mano sempre più obsoleto prima dal deterioramento “disteso” dei rapporti fra USA e Unione Sovietica (con quest’ultima che ha reso possibile, grazie alla sua stessa industrializzazione capitalistica “incompiuta” e implosa nel 1991, l’accumulazione di potere e di influenza del dollaro americano) e poi dai fatti degli ultimi trent’anni, con la potenza americana ritrovatasi sola detentrice del ruolo di “gendarme del mondo” e allo stesso tempo in inesorabile declino relativo a quelle che dovrebbero essere le potenze emergenti dell’imperialismo attuale, in primis la Cina. Ma per quanto ci si possa illudere sull’emergenza di un “mondo multipolare”, fatto di tanti feudi imperialistici differenziati a seconda delle proprie “appartenenze”, bisogna sempre ricordarsi che l’imperialismo non è una “politica degli stati”, ma (come direbbe Lenin) un “capitalismo di transizione”: quando si trapassa un certo punto nel livello di centralizzazione e interdipendenza del Capitale e dei capitali singoli è impossibile tornare indietro.

Quindi una guerra di blocchi, di alleati e di assi, per quanto possa sembrare il contrario, è comunque una remota eventualità, smentita dall’evoluzione economica degli ultimi 80 anni e dal fatto che non ci sia davvero un contendente che possa scavalcare il ruolo di perno che hanno gli Stati Uniti nello scacchiere geostorico globale. Un ruolo del genere implicherebbe, tra le altre cose, la possibilità di iniziare un ciclo di accumulazione rinnovato su scala mondiale, dei nuovi trenta gloriosi magari in salsa “green”. In che contesto si inserisce la guerra guerreggiata dalla Russia in Ucraina, considerando – come abbiamo affermato poc’anzi – che la Russia non costituisce un vero “blocco” antitetico a quello statunitense?

A un livello base di comprensione potrebbe apparire che questa guerra sia combattuta innanzitutto per le materie prime, un po’ come succedeva con i truismi sulle “guerre per il petrolio” guidate dagli americani negli ultimi trent’anni. Bisogna però ricordarsi che il significato del materialismo storico non sta in una determinazione di “cose”: la traiettoria del capitalismo attuale va analizzata non tanto come una sommatoria di elementi separati, come può essere la fame di materie prime o le decisioni politiche dei singoli governi, ma come un integrale di elementi interconnessi legati alla riproduzione e distribuzione di plusvalore.

L’industria e l’economia europea dipendono in misure differenziate dalle importazioni di gas dalla Russia. L’epicentro economico è e sarà la Germania, che com’è ben noto aveva previsto di rifornirsi con il gasdotto Nord Stream II di gas proveniente direttamente dalla Russia passando per il Mar Baltico. Le speculazioni sui futures delle materie prime, già in forte aumento da prima della guerra, sono aumentate vertiginosamente, in particolare su beni di prima necessità come pane, mais, soia. Il prezzo del grano è aumentato di più del 50% a livello mondiale dall’inizio della guerra (attualmente è sui 12 dollari e mezzo a bushel, NdR). Il tutto inserito in un contesto di scarsa redditività del capitale, di anemia del saggio di profitto, di stagnazione del commercio globale e di inevitabili timori per possibili carestie tra i miserabili delle periferie globali del capitalismo. Il fallimento dello Sri Lanka è il primo esempio che rende evidente l’instabilità sociale ventura.

Poi c’è la questione dell’egemonia monetaria. L’ingiunzione del governo russo di accettare solo pagamenti in rubli per le forniture europee di gas (e l’altrettanto artificiale tentativo di imporre uno standard aureo al rublo per evitare la sua svalutazione, svalutazione che in ogni caso pare sia stata sventata) sono parte di un wargame monetario di Mosca nel tentativo di smarcarsi dal dominio finanziario del dollaro. Si può notare di come il prezzo dei bitcoin e delle criptovalute come valute di riserva siano significativamente aumentati ad aprile per poi ridiscendere nel mese successivo con la risalita del rublo, e le prospettive di uno yuan digitale da parte del governo cinese si fanno sempre meno sperimentali.

Le potenze emergenti cercano di far vacillare il dominio del dollaro, senza riuscire a sostituirlo; alla guerra verrà accompagnata sempre di più l’anarchia valutaria a livello mondiale, e la disintegrazione del ciclo economico che dura dalla metà degli anni ’70. Intanto, sul fronte bellico, la infowar russa e quella NATO procedono specularmente alle bombe e ai massacri nel tentativo di “compellere” l’avversario ad agire secondo i propri interessi – a Kharkiv, a Mariupol, a Izium, a Donetsk.

Non staremo in questa sede a riepilogare tutti gli eccidi, tutte le atrocità e tutti gli spasmi propagandistici che stannocaratterizzando e continueranno a caratterizzare questa guerra. Non farebbe che aggiungere orrore mentre migliaia di proletari ucraini e russi muoiono al fronte in una guerra, come direbbe una canzone dei Kino, “senza una ragione particolare”. I residui anestetizzati di chi vuole vedere partigiani in ogni dove si scervellano per votarsi all’assassino migliore: con Zelenskyy o con Putin? Con la dottrina Gherasimov o con la compellence americana? Con il gruppo Wagner o con il Battaglione Azov, con i nostalgici dell’impero di Nicola II o con il nazionalismo ucraino? Non vi è che l’imbarazzo della scelta nel mercato delle “resistenze”.

Da parte nostra, invece, troviamo che l’internazionalismo non sia una frase fatta buona per dare una verniciata di rosso a una retorica spenta: sebbene l’imperativo di Lenin sul “trasformare la guerra imperialista in guerra civile” sia ormai obsoleto (e del tutto irrealistico nella guerra attuale, dato che nelle condizioni in cui ci troviamo è piuttosto aut guerra imperialistica, aut guerra civile: la guerra del capitale va fermata prima che scoppi) rimane la necessità di sabotare lo sforzo bellico sul fronte interno e con tutti i mezzi disponibili. Perché l’unica guerra che occorre preparare è quella degli sfruttati e dei rivoluzionari del mondo contro il tramonto di una società che trascina nel baratro della sua rovina chiunque senta il suono delle sue illusioni, e che va fermata al più presto possibile con tutta la forza che abbiamo: non c’è più tempo per attendere.

Lattanzio occupato: ad maiora!

Con l’ondata di occupazioni scolastiche che prosegue dall’inizio dell’autunno, sembra che un’aria nuova stia soffiando tra i licei romani. Un’aria fatta di rivendicazioni e manifestazioni che chiedono la fine delle problematiche didattiche e strutturali accumulate dall’inizio della pandemia, ma anche una richiesta sempre maggiore di autodeterminazione da parte degli studenti stessi, talvolta in modalità più spontanee rispetto alle ondate studentesche passate. 

L’altroieri alla lista delle occupazioni di Roma si è aggiunto anche il Lattanzio, istituto di istruzione superiore che si trova in Via Teano, nella zona est di Roma. Gli studenti del liceo (avendo chiesto il nostro intervento per aiutarli con l’occupazione) hanno potuto constatare sia la nostra materiale disponibilità a recarci nel liceo che il nostro interesse attivo, politico per i loro sforzi, nonostante abbiano anche loro da poco sgomberato.

In effetti non possiamo che essere colpiti positivamente dalla spontaneità che gli studenti del Lattanzio hanno saputo esprimere in un liceo-gabbia di migliaia di studenti: nessun collettivo, nessuna organizzazione formale, nessun’esperienza politica precedente. Possiamo facilmente dire che è stata proprio l’assenza dei residui ammuffiti della politica studentesca tradizionale ad aver spinto ad una maggiore consapevolezza dei compiti pratici che comporta un’azione del genere.

Al di là delle mancanze infrastrutturali e di manutenzione del liceo (termosifoni che non funzionano, un bagno per undici classi e centinaia di studenti etc.) il problema principale che è emerso da questa occupazione è, come dicono gli studenti, legato alla preside ad interim, che similmente ad altri dirigenti scolastici nei licei di periferia in Italia e a Roma si comporta in modo autoritario, autoreferenziale e produttivistico, oltre che nei confronti agli studenti anche rispetto all’istituto e al personale scolastico stesso, privando gli studenti di qualsiasi mediazione per i loro problemi e con una presenza a scuola limitata a due giorni a settimana.

Ora, per noi e per il nostro orizzonte rivoluzionario, ogni azione che muove per una rottura della routine politica studentesca e, specialmente in questa città, dei racket politici che ne fanno parte, anche se finisce dopo qualche giorno, non può che essere accolta a braccia aperte, al di là di quello che gli studenti pensano di loro stessi. 

Ci auguriamo quindi che una maggiore consapevolezza e una nuova prassi politica studentesca possa sgorgare da questa esperienza così come da altre occupazioni in questa città. Per una gioventù ribelle, cosciente, rivoluzionaria!

15 Ottobre, 2011-2021

Sono passati dieci anni dai fatti del 15 ottobre del 2011. Dieci anni segnati – in Italia – dal progressivo ispessimento del controllo poliziesco, dall’impoverimento sociale, dalla perdita di slancio di tutti i “movimenti”, dalla paralisi concettuale di molti, e da nuove, rovinose pandemie mondiali. La piccola generazione di coloro che hanno vissuto il 15 ottobre è oramai entrata, integrata o disintegrata, nel mondo sociale lasciato dai postumi di quell’anno. Ma, anche dopo dieci anni, al di là delle commemorazioni (che ci sono sempre state strette), chi di noi può davvero dimenticare quei giorni, scolpiti col fuoco nei nostri animi?

Tutti sanno che il corteo, che originariamente doveva approdare ai “palazzi del potere” di Montecitorio dove sarebbero dovute partite le geremiadi dei cosiddetti indignados contro la cattiveria di Berlusconi e delle banche, è stato deviato all’altezza di Via Cavour ed è poi proseguito, sospinto dal blocco della polizia e dagli sporadici attacchi di chi si era incappucciato, prima su via Labicana e poi infine in piazza San Giovanni, dove è accaduto l’episodio più noto di quella giornata, ovvero la rivolta aperta durata fino a sera contro le camionette della polizia che giravano intorno alla piazza nel tentativo di investire l’esecrata teppa. È cosa ben nota anche l’aperto sabotaggio della rivolta che i Cobas, gli indignados, i disobbedienti ed il variopinto popolo di cittadini benpensanti che partecipava quel giorno al corteo ha orchestrato contro chiunque venisse sospettato di essere “black bloc”, ultras o comunque violento nerovestito, con azioni non solo di aperta delazione (continuata a mezzo stampa nei giorni successivi, in particolare su La Repubblica) ma di sbirraglia interna al corteo contro individui che allora erano adolescenti o poco più. Il copione genovese si era insomma ripetuto a suo modo anche a Roma.

Che dire di quella rivolta che non sia stato già detto? Lasciamo che i commenti sulla “strategia”, su come la contrapposizione tra “persone comuni” e rivoltosi fosse stata controproducente e su quanto fossero gli ultimi spasmi di un movimento dell’Onda in via di naufragio si perdano nel vuoto da cui originano; lasciamo soprattutto che il campionario di infamie che disobbedienti, sindacalisti, giornalisti democratici e pacifisti hanno vomitato in quei giorni contro la violenza di piazza continui ad essere calpestato dai rivoluzionari; chi c’era e anche chi non ha potuto esserci ha assaggiato attimi di vita che solo scintille del genere offrono; ha compreso – più di qualunque libro, educazione od apprendimento letterario – la critica alla società del Capitale, cosa fosse la gioia del vivere diversamente una città come Roma, e si è organizzato spontaneamente attorno all’unica cosa che occorre davvero portare in quei contesti: la rabbia contro l’infamia della vita capitalistica.

Se la nostra piccola generazione ha continuato ad avere l’ombra di quell’entusiasmo dopo dieci anni è perché il 15 ottobre, nonostante le sue contraddizioni, è stato l’esplosione di un potenziale che negli anni successivi si è sempre meno ripresentato. Ma rimane sopito, vivo. E si riaccenderà nel precipitare delle condizioni che attendono il futuro ad un bivio: vita o morte, comunismo o distruzione umana. Rivoluzione o annichilimento!

Cronaca di uno sfratto rinviato e di un quartiere solidale

Sono le 7:30 di mattina al civico 31 di Via Giuseppe Chiovenda, l’orario in cui è stato dichiarato l’arrivo dell’ufficiale giudiziario con tanto di forza pubblica, per eseguire lo sfratto di una delle tante persone che abitano occupando alcuni degli 8000 appartamenti lasciati sfitti dalla fondazione Enasarco, nota associazione commerciale romana attualmente a rischio commissariamento e con un largo patrimonio immobiliare dismesso.

L’intenzione è quella di gettare in mezzo alla strada una madre con due figli di 10 e 12 anni, senza proporre soluzioni alternative, dopo 7 anni di occupazione nell’appartamento e di conseguente radicamento nel quartiere, con i propri affetti ed amicizie ormai consolidate. Rapporti che hanno creato una rete solidale che difatti non si è fatta attendere nel radunarsi in un picchetto per impedire lo sfratto, con il supporto di vari compagni e compagne, degli inquilini affini e del movimento romano per il diritto alla casa.

Sono ormai le 10, e con un larghissimo ritardo si presentano due membri delle forze dell’ordine, un delegato dell’Enasarco e l’ufficiale, ma si ritrovano ad affrontare un presidio ben determinato, nonché ben partecipato (siamo nell’ordine delle quaranta/cinquanta persone), e subito avviene un confronto verbale con la signora circondata dai propri familiari che non esita a gridare tutta la sua frustrazione in faccia al funzionario, mentre intorno si può palpare la tensione della folla verso le guardie ed il delegato dell’ente. Il tutto avviene fuori dai cancelli del complesso di palazzine, di fronte ad un edicola e ad un bar molto frequentato nella parte opposta della strada.

Come conseguenza della situazione, il picchetto si fonde con gli umori degli abitanti del quartiere, che si ritrovano di fronte la scena e iniziano a farsi sentire. “Sfrattate i poveracci in questo periodo difficile, che schifo”, “andatevene via”. Alcuni sembrano molto accalorati verso l’inviato dell’Enasarco: “avete lasciato migliaia di appartamenti vuoti”, “maledetti palazzinari” e più si dà sfogo alla rabbia più questa sale, tant’è che anche le forze dell’ordine decidono di restare qualche passo indietro. Ma a smorzare la situazione c’è l’agire composto dell’avvocato che segue la situazione della signora, e che interviene impugnando quello che probabilmente diventerà un grosso precedente giuridico in Italia, e cioè un atto ufficiale emesso dall’ONU in cui si esige la sospensione dello sfratto, in quanto verrebbero violati i trattati sui diritti umani ai quali anche l’Italia ha sottoscritto.

In ogni caso la situazione resta ancora confusa, e il confronto tra la signora e l’ufficiale giudiziario diventa molto livoroso (“io sono 7 anni che abito qui dentro”, “embè so pure troppi”). Dopo l’alterco la signora ha un malore, rendendo necessario l’intervento del 118. Nell’attesa dell’ambulanza viene portata da alcuni solidali nel giardino del palazzo, lontana dalla situazione di tensione sempre più crescente tra il picchetto e i suoi nemici, in cui continuano a volare ingiurie da entrambe le parti e si susseguono momenti di litigio sempre più densi.

All’arrivo dei sanitari i due agenti di polizia ne approfittano per seguirli ed oltrepassare i cancelli della palazzina, fino ad arrivare di fronte alla scala dove la signora dimora e dove stava ricevendo aiuto dai solidali del picchetto. Sembra quasi che le guardie vogliano cogliere l’occasione per introdursi nella scala, ma il presidio coglie la situazione al volo e qualcuno si schiera a muro di fronte alle porte del palazzo: niente da fare per la polizia, gli tocca retrocedere.

L’ambulanza è ormai andata via, avvengono le ultime disquisizioni tra l’avvocato e l’ufficiale giudiziario ed il verdetto finale regala alla famiglia e ai solidali una piccola grande vittoria: lo sfratto viene rinviato al 3 dicembre. Risultato da non sottovalutare, visto che non è il primo: questa è in realtà la seconda volta che lo stesso sfratto viene rinviato, sempre grazie a un presidio avvenuto quest’estate, meno risonante mediaticamente ma comunque ben riuscito.

Noi ci auguriamo che si continui su questa via: che sempre più sfratti vengano ostruiti dalla determinazione di chi si oppone lottando alla speculazione immobiliare, e che sugli interessi dei palazzinari, dei rappresentanti di commercio e del Capitale prevalgano non tanto le astrazioni giuridiche sul diritto umano all’abitare dell’ONU, quanto l’affermazione fisica della forza nella lotta proletaria per l’abitare.

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UN ALTRO CAPITALISMO È IMPOSSIBILE. DOPO 20 ANNI, GENOVA ODIA ANCORA!

Genova. Città abituata alle rivolte. Città che ha dato natali ad illustri ribelli. Balilla, il Risorgimento, i moti operai e proletari dell’ottocento, la fondazione del Partito Socialista d’Italia, la resa dell’esercito tedesco direttamente alla popolazione insorta nel ’45, gli ex partigiani che nel’ 48 salgono con le mitragliatrici sui tetti, il 30 giugno ’60, i Camalli (tradotto dal Genovese all’Italiano: portuali, facchini), gli operai, i ragazzi delle zone “difficili”, i turbolenti anni settanta.

Ed anche in quei giorni di 20 anni fa, non fu da meno.

Di nuovo, operai, camalli, ragazzi di strada, ultras, ribelli, dai quartieri delle fabbriche del ponente, come da quelli lontani delle valli da cui il mare non si vede, come da tante altre parti della città, si riversarono nelle piazze, nelle loro piazze. Tutti idealmente con la maglietta a righe dei loro padri e nonni, e tutti con gli uncini, gli uncini usati per lavorare in porto, stretti in mano. In particolare, i Caruggi, cioè il centro storico dai vicoli stretti, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” (La Città Vecchia, Fabrizio De André), erano stati decretati zona rossa, con tutte le nocive conseguenze in relazione ai controlli polizieschi per i suoi abitanti, una parte dei quali viveva di attività extra legali. Alle divise per nulla gradite, prima, durante e dopo le manifestazioni hanno mostrato chiaramente quanto non fossero desiderate da quelle parti. Una città, dunque, perfetta per il G8, per quel G8.

Era l’epoca del “popolo di Seattle”, o movimento “No Global”. Un movimento che già da qualche anno, un po’ in tutto il mondo, rovinava la festa patinata ai potenti della terra durante i loro congressi. Un movimento internazionale, nel senso che attraversava diversi paesi del mondo, e che, soprattutto, aveva ben chiaro che la dimensione dello scontro fra sfruttati e sfruttatori fosse, per l’appunto, internazionale. Aveva una sua certa consistenza numerica, in quanto attraeva tipologie molto diverse fra loro, dal lavoratore allo studente, dall’ultrà al boy scout, dall’immigrato al giovane emarginato. Quindi, pur essendo interclassista, aveva a suo interno una forte componente proletaria, giovanile e non solo. Trattava molte tematiche, proponendo una critica complessiva a tutte le contraddizioni del sistema. Stava, poi, riuscendo a “contaminare” anche una parte non limitata di opinione pubblica. E, per inciso, ha dimostrato in varie occasioni di essere disposto ad esprimere radicalità.

Dobbiamo, però, essere estremamente chiari su di un punto: tale “popolo di Seattle” non era un momento rivoluzionario. Né nel senso che avrebbe potuto abbattere il capitalismo, e né, più modestamente, che si prefiggesse tale obiettivo. Almeno, non nei bonzi riformisti alla sua direzione. Molte riflessioni, allora, ci consegna tutta questa vicenda, che per certi versi sono di una linearità da manuale. In primis, nella dinamica interna; infatti, ogni movimento di opposizione all’ordine costituito, che non sia inserito in una fase in cui è all’ordine del giorno il superamento del sistema, è ipso facto riformista: il suo scopo è migliorare l’esistente, con ritocchi più o meno significativi e con mezzi più o meno risoluti; il suo vertice è nei fatti (che ne sia consapevole o meno) sempre riassorbito o riassorbibile entro la compatibilità di regime, ed opera nei fatti (che ne sia consapevole o meno) perché accada altrettanto anche al resto del movimento.

All’interno di tali movimenti, però, vi è sovente una componente Rivoluzionaria, di dimensioni variabili. Tali poli, allora, è naturale che siano in conflitto, spesso e volentieri anche fisico. Il movimento No Global, i fatti di Genova, i suoi prodromi e gli strascichi degli anni successivi, ricalcano alla perfezione questo schema ideale.

Una burocrazia interna, almeno in Italia, si era infatti sedimentata intorno a quasi tutti i centri sociali, a buona parte dei sindacati di base, ed ai partiti istituzionali (verdi e rifondazione comunista in primis). I centri sociali erano infatti da anni in via di normalizzazione, preoccupati di non perdere la propria legittimità istituzionale ed il loro rapporto preferenziale con i partiti e le giunte comunali “amiche”, magari piazzando in qualche seggio un loro rappresentante, ricavandone rendite di prestigio e di potere, oltre a profumati finanziamenti. I sindacati di base, nella loro maggioranza, esauritesi le poderose spinte delle lotte operaie e proletarie che li avevano generati, galleggiavano in guerra fra loro per mantenere più iscritti possibile, per autoalimentarsi organizzativamente, dunque economicamente; alcuni di essi in particolare, in tal modo riproducevano nelle loro piccole dimensioni le continue degenerazioni di CGIL-CISL-UIL, finendo addirittura più a destra di componenti di base della citata triade, come di aree di sinistra della FIOM (del resto presenti anch’esse nelle mobilitazioni no global). Riguardo a verdi e rifondazione, con la loro idiota pretesa di essere partiti di lotta e di governo, basta dire che in pochi anni siano scomparsi, non v’è null’altro da aggiungere.

L’alterità e l’inconciliabilità fra le due anime, ovviamente, erano ben riscontrabili dal punto di vista teorico. I riformisti proponevano riforme ampie, come la tassazione delle grandi movimentazioni finanziarie, talmente ampie da essere assolutamente impossibili rimanendo all’interno degli odierni rapporti di produzione e di distribuzione; erano “altermondisti” (“un altro mondo è possibile”, dicevano), cambiare la globalizzazione capitalista senza abbattere il capitalismo che l’aveva generata; niente male come utopia! Invece, la posizione di quelli considerati i veri utopisti, cioè dei Rivoluzionari, era legata al superamento del sistema capitalistico: a tale strategia doveva essere subordinata la tattica, anche quella del movimento.

Cotanti presupposti spiegano il comportamento infame delle tute bianche (poi rinominatesi proprio in quei giorni “disobbedienti”, che raccoglievano molti centri sociali ed associazioni, in particolare del Nordest e di Roma) e di molte altre componenti “moderate”: dagli attacchi squadristi (spesso in 20 o 30 contro pochi), a vere e proprie delazioni. Fiancheggiarono, inoltre, l’opera di calunnia strombazzata dai giornali e dagli altri mass media, a partire da quelli di “sinistra”. Caccia e messa al bando, sia fisica che morale, di chi era vestito di nero e di chiunque avesse voluto dimostrare la propria sacrosanta rabbia. Il comodo capro espiatorio era trovato e dato in pasto a sbirri ed opinione pubblica.

Tanto per far dimenticare che, oltre all’infamia, quello che contraddistingueva le suddette tute era l’incapacità non solo e non tanto di leggere gli eventi e porre una prospettiva a medio e lungo termine (non ci si è mai aspettato tanto da loro), ma, molto più banalmente, a comprendere le condizioni di piazza. Riguardo ad essa, infatti, agivano in modo tanto semplice quanto insensato: in omaggio alla migliore tradizione della sceneggiata all’Italiana, concordavano con la polizia dei finti scontri.

I bianco vestiti, ridicolmente agghindati con “strumenti di difesa”, senza lanciare nemmeno un pinolo, avanzavano verso le forze dell’ordine, che a quel punto li respingevano, dando magari il contentino di essere indietreggiate un 5 metri. A Genova gli accordi tra la DIGOS e le tute bianche erano del medesimo tipo: un po’ di spintoni, poi si sarebbe fatta violare simbolicamente la zona rossa. Ma “spesso gli sbirri ed i carabinieri alla propria parola vengono meno”, ed il corteo fu attaccato sul serio. Le tute bianche hanno, quindi, la responsabilità storica e morale di aver mandato un corteo di migliaia di persone al massacro, non prendendo nemmeno in considerazione che i patti potessero essere disattesi dalla controparte in divisa, e dunque senza prepararsi a veri tafferugli o a qualsiasi altro “piano b”.

Nel loro corteo è morto il compagno Carlo Giuliani. Dunque, la burocrazia riformista di movimento aiutò direttamente ed indirettamente la rappresaglia statale, in taluni casi prendendosi anche la briga, come accennato, di fare da “guardia bianca”.

Ma per affrontare in maniera articolata la repressione di cui il G8 di Genova divenne sinonimo, è opportuno fare una piccola digressione su cosa sia la repressione in generale. Il capitalismo, per autoalimentarsi, non si fa problemi a calpestare tutto e tutti, a partire dalla vita umana. È una immonda barca che galleggia sul sangue. E fuori dall’occidente lo è ancora di più: i morti per guerra, fame, sfruttamento, malattia, clima, ecc. sono innumerevoli ogni anno. Il capitale uccide di norma, per sua natura, dunque.

Non stupisca, allora, che ogni tot mostri il suo vero volto anche dove non si penserebbe, come nella civile ed avanzata Italia. Stroncare un movimento, seppur, come abbiamo argomentato, limitato e per certi versi limitante, con un morto, gli spari, i lacrimogeni, le manganellate, le torture, è la norma, non una eccezione legata ad una contingenza sfortunata, come un governo di centrodestra, errori nella catena di comando dei poliziotti od altro.

Simmel, un sociologo non certo marxista od anarchico, ci ricorda che il potere, per definizione, si regge sulla forza e sul consenso. Più è forte il secondo, e più è limitata la prima, e viceversa. O, detto in altri termini, più si incrina o si rischia di incrinare la riproduzione del capitale, e con esso tutto l’ordine creato a tal scopo, e più la risposta di esso sarà violenta. I sacri “diritti umani” vengono e verranno tranquillamente calpestati alla bisogna, come dimostra in maniera esemplare il recente caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, altro caso di “macelleria messicana”, come lo furono la Diaz e Bolzaneto. Ne tenga conto chi vuole combattere per un altro mondo possibile.

Ritornando in particolare all’oggetto dell’articolo, quindi, l’uso sistematico e scientifico della brutalità poliziesca contro i manifestanti, aveva un duplice scopo. Il primo di aumentare la divisione interna fra “buoni” e “cattivi”, rincarando i conflitti fra le diverse aree, o facendo saltare ogni possibile “connivenza” fra esse; in tale contesto, ripetiamo nuovamente, i più solerti ed i più incorporati nel sistema si sono offerti volentieri di fare da polizia interna. Il secondo di evitare che tale movimento continuasse ad essere o diventasse un reale riferimento per settori di dissenso, di disagio e di “devianza” sociale, in Italia come negli altri paesi; evitare cioè, che le sue fila fossero ingrossate da lavoratori precari sempre più scontenti, da una fascia di lavoratori dal reddito più alto e dalla piccola borghesia (cioè dalle componenti del così detto “ceto medio”) che già all’epoca erano sulla via dell’impoverimento, come anche da giovani e meno giovani, provenienti dai rioni popolari, dagli stadi, dalle scuole o dalle università. La liquidazione riuscì e dopo un paio d’anni il popolo di Seattle si esaurì.

L’evolversi della crisi economica, del resto, aveva azzerato i margini di manovra politico e sociale delle componenti riformiste che illudevano di poter usare tatticamente le istituzioni, magari gozzovigliandoci dentro per portare a casa qualche briciola. Altri scenari, dunque, si sarebbero aperti nell’immediato futuro. Oggi le antinomie di sistema stridono sempre più. Non vi può essere spazio per chi a parole è un incendiario e nei fatti un pompiere (si veda, a tal proposito, la triste parabola dei 5 stelle). Come, nel caso di accelerazioni di piazza, non ci si può permettere la finta estetica dei “disordini” (dall’altra parte le madame menano sul serio!) o della “non violenza gratuita”.

Onorare e fare nostro quanto di positivo il “popolo di Seattle” ha espresso, vuol dire, in primis rigettarne senza reticenze gli errori, le ingenuità, le illusioni. Oggi servirebbe tremendamente un movimento che leggesse nel complessivo il reale, criticando il capitalismo a 360 gradi. Come servirebbe guadagnare la dimensione internazionale della lotta. E servirebbe la generosità nel metterci la faccia ed il corpo in determinate situazioni legate alla strada. Questa volta, però, consapevoli che l’unico altro mondo possibile è solamente quello che si ergerà sulle macerie dell’attuale.

Senza mediazioni né compromessi. Lo dobbiamo a Carlo, ai feriti ed ai pestati di quei giorni, come lo dobbiamo a tutti gli sfruttati, scontenti, e ribelli della terra. Nel loro nome, fra le contraddizioni insanabili dell’odierna società, la Rivoluzione avanza!

Per un abitare diverso. Blocchiamo sfratti e affitti!

Il Capitale deve circolare, e sempre più velocemente. Questa legge – l’aumento del tempo di circolazione – vale anche in un momento come quello attuale, in cui la circolazione capitalistica sembra essersi temporaneamente bloccata. Uno dei modi con cui la circolazione può realizzare il plusvalore prodotto nella società è fissandosi come rendita immobiliare, da cui l’importanza che rivestono le città come epicentri speculativi per il Capitale giunto al suo dominio reale (nonché per i capitali singoli).

In Italia, al momento, continua a vigere il blocco degli sfratti, prorogato un mese fa dal governo, ma è evidente che questa misura sia del tutto parziale; i tentativi di sfratto continuano, e continuano in particolar modo a Roma, in cui ad un problema abitativo strutturale si è aggiunta la crisi dovuta alla pandemia. L’iniziativa da parte dell’ATER, che si trascina dall’agosto scorso, di vendere più di 7000 alloggi popolari, provando a convincere gli inquilini con delle lettere ad acquistare le loro case o ad andarsene, si inserisce in questa dinamica; le case popolari non rientrano nell’economia di una città che si prepara a ritornare al business as usual del turismo, all’economia più o meno rapace degli airbnb, ai profitti dei palazzinari e alla “riqualificazione”. 

Vediamo che le politiche urbane a Roma e in Italia sono un continuo “rosicchiare” le condizioni di vita del proletariato urbano. Eppure, la questione delle case ATER e degli sfratti non è solo una questione sindacale; nessuna misura istituzionale, nessun blocco degli sfratti o – come succede nella Berlino socialdemocratica dei Verdi – nessun tetto agli affitti può frenare la frenesia della rendita capitalistica e della speculazione nel “mangiarsi” sempre più pezzi di città, od invertire il processo di gentrificazione in atto nelle città europee. Il Capitale circola sulla testa dei proletari, ed è impossibile fermarlo con le istituzioni che lo difendono.

Solo la lotta per abolire una società marcia fino al midollo, che si contrappone alla felicità e la creatività dell’uomo sociale, può farlo.

PER UN ABITARE RADICALMENTE DIVERSO, DOBBIAMO FARE SPAZIO AD UN MONDO COMPLETAMENTE DIVERSO!

BANDIERA ROSSA ED IL SENTIMENTO RIVOLUZIONARIO

A ridosso dell’anniversario della strage delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944), scriviamo qualche riga in merito al Movimento Comunsta d’Italia, meglio conosciuto con il nome del suo organo di stampa, Bandiera Rossa, che più di altri ebbe perdite (oltre 50) in tale occasione.
Non si vuole operare una, seppur breve, ricostruzione storica della detta organizzazione; per chi ne volesse sapere di più rimandiamo all’ottimo libro di Arturo Peregalli L’Altra Resistenza. Il PCI E Le Opposizioni Di Sinistra (1943-1945), oppure a quello, più specifico, di Silverio Corvisieri Bandiera Rossa Nella Resistenza Romana.

Il nostro intento, invece, è proporre uno spunto di analisi, contestualizzando e, se possibile, attualizzando.
Bandiera Rossa era per la Rivoluzione. Da questo dobbiamo partire per ricostruirne le vicende. E, coerentemente, non entrò nel Comitato di Liberazione Nazionale, oltre a criticare aspramente il Pci per aver presto disatteso le proprie parolaie velleità ”rivoluzionarie” e per la sua conseguente alleanza con il partiti borghesi. Una simile posizione, insieme alla critica di deriva burocratica, non poteva che suscitare sospetti e poi ostilità da parte del partitone di Togliatti e Secchia. Del resto, in puro stile stalinista, per i satrapi di botteghe oscure, chiunque si fosse mosso alla propria sinistra, mettendo il dito nella piaga del loro passaggio dalla parte dello stato e della conservazione capitalistica, meritava persecuzione, calunnia e morte.

Ricordiamo, velocemente ed in maniera del tutto sommaria, che gli sbrirri del Pci spararono a più riprese ai compagni rivoluzionari, fra l’altro uccidendo Fausto Atti e Mario Acquaviva del Partito Comunista Internazionalista e Temistocle Vaccarella di Stella Rossa.
Ed anche le calunnie uccidono, specie in un periodo di lotta clandestina. Seminare il sospetto ed isolare i compagni scomodi, con le infamanti accuse di essere spie e servi della gestapo e dei fascisti, equivaleva scientemente ad esporli alla repressione proprio di questi ultimi. Cosi’ è successo nel Nord Italia, come, tra i tanti, al garibaldino dissidente Mauro Venegoni, allo stesso modo a Roma, a Bandiera Rossa, che in tale città, fra il ’43 ed il ’45, ha avuto il numero più alto di vittime (più di 180) fra i raggruppamenti che si opponevano al fascismo, oltre ad innumerevoli arresti e deportati.


Del resto, i componenti di Bandiera Rossa erano poco presentabili e rassicuranti, legati com’erano agli ambienti popolari, anche extralegali, di molti quartieri (da Piazza Vittorio, alla zona nord, a quella sud-est, dal Quadraro a Torpignattara a Centocelle), che, nonostante le suddette accuse picciste infondate ed infamanti, offrivano loro un rifugio, anche se per forza di cose limitato; abituati a razziare le case dei ricchi borghesi romani per finanziarsi (segno di ”infantilismo” per il piccista Franco Calamandrei e per i suoi simili); e, come già detto, “settariamente” ancorati all’idea tutta bolscevica di trasformare la guerra in Rivoluzione. Ed ancora meno presentabili e rassicuranti dovevano apparire in un periodo in cui, al contrario, il Pci e tutto il CLN facevano a gara per tranquillizzare i comandi alleati della loro fede nelle istituzioni democratiche e nell’ordine capitalista. Infatti, tali compagni non ebbero vita facile nemmeno dopo l’avvicendamento degli angloamericani, succeduti ai nazi-fascisti, nè da parte degli alleati stessi, nè da quella della ripristinata polizia democratica e nè da quella del sempre zelante Pci.

Purtroppo i limiti teorici dell’organizzazione, che sicuramente si allontanava dall’esperienza stalinista ma che non ne coglieva l’intima essenza di paravento ideologico di un regime a capitalismo di stato, non le permisero di avere una posizione netta su di essa, come invece la ebbero altri gruppi, in primis il Partito Comunsta Internazionalista, più conseguenziali ai propri presupposti teorici marxisti e più fedelmente ancorati alle radici del Partito Comunista d’Italia del 1921. Sull’U.R.S.S., scrive infatti Corvisieri nel suo libro: “si coglie un’altalena di posizioni, un’oscillazione continua dalle posizioni dei filostalinisti a quelle dei filotrotskisti passando per la teoria “giustificazionista” che cercava di salvare capra e cavoli spiegando come il modello realizzato dell’U.R.S.S. fosse stato un portato della necessità storica ma anche una esperienza particolare e non tale da costituire, perciò, un modello da imitare in tutti i paesi”.

Questa sequela ondivaga di visioni su un argomento all’epoca cosi’ cruciale, impedi’ a Bandiera Rossa di creare un’unica organizzazione con la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani (la quale nel luglio del 1945 si scioglierà, e di cui una buona parte di militanti confluirà nel Partito Comunista Internazionalista), gruppo il cui zoccolo duro era composto soprattutto da milinanti della prima ora del P.C.d’I. nato a Livorno, che si opposero alla svolta staliniana. Tali formazioni ebbero diversi contatti ed incontri, il più importante dei quali fu il Convegno di Napoli della Frazione, del gennaio ’45, al quale parteciparono delle delegazioni della stessa Bandiera Rossa e di altri soggetti rivoluzionari, ma da cui non si arrivò ad una convergenza organizzativa.

Con la fine della guerra, questa vaghezza teorica non consenti’ al M.C.d’I. di avere la saldezza per resistere all’offensiva politica ed organizzativa del Pci, e fini’ per sciogliersi. Una parte dei componenti, comunque, mantenne la propria carica di opposizione radicale al sistema ed ai suoi servi (a cominciare da quelli di ”sinistra”), confluendo chi nell’area della Sinistra Comunista (P.C.Int. primariamente), e chi piu’ tardi in quella dell’Autonomia Operaia.
Dove non arrivò il rigore teorico, dunque, giunse il sentimento Rivoluzionario; esso, anche più del primo, ha indicato ed indica, in ogni contesto luogo e tempo ad ogni militante, da che parte stare!

Il centenario della nascita del PCd’I e noi

Il feticismo delle commemorazioni dovrebbe essere sempre rigettato da parte di chi si considera rivoluzionario. I Sonic Youth cantavano “Kill Yr Idols”, e questo vale anche per noi, che di idoli non dovremmo averne. Le bocche degli opportunisti di ogni risma banchettano sui resti del cadavere del movimento proletario del passato. Per commemorare i cent’anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia (poi Italiano, a sigillo dello stalinismo e del togliattismo) si è scomodato addirittura Ezio Mauro. Ma i giornalisti democratici tutto sommato possiamo capirli: lavorano senza maschere per la conservazione del Capitale, e non ci impensieriscono più di tanto. Invece, sul fronte della propaganda stalinista, riformista e frontista su Livorno, alle fanfare si sono da tempo sostituite le orchestre di trombe sfiatate; le stesse falsificazioni vengono ripetute con stanchezza, senza più enfasi, le stesse icone vengono portate sull’altare nel tentativo di mantenere in vita la mistificazione anche in occasione di questo centenario. Che diremmo noi, quindi, di questi cent’anni dalla scissione che fondò il Partito Comunista d’Italia, il 21 Gennaio del 1921, a Livorno?  

È nota quale fosse la situazione italiana prima del 1921: Una guerra mondiale svolta dalla parte dei vincitori ma vinta a prezzo altissimo per il proletariato, un Partito Socialista imperniato sulla formula di Lazzari del “né aderire né sabotare” e incapace di ammettere di essere inadeguato per una situazione di aperto scontro sociale, ma con una tendenza di sinistra (costituitasi in frazione tra il 1918 e il 1919) che, a dispetto dei riformisti e dei massimalisti a la Serrati, godeva dell’appoggio di una larga fetta del partito (a partire dalla Federazione Giovanile, che passò in blocco al PCd’I) in una situazione di malcontento generalizzato, segnato da agitazioni operaie che scossero tutto il paese dal 1919 fino all’autunno del 1920. Fuori dall’Italia, tra il 1918 e il 1920 venne repressa la rivoluzione spartachista e morirono in carcere Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fallì la repubblica dei consigli di Béla Kun in Ungheria ed il movimento rivoluzionario europeo, esploso sulla scia della rivoluzione d’Ottobre e della prima guerra mondiale, si incamminò verso la sua inesorabile ritirata. 

Dopo la fondazione della Terza Internazionale nel 1919 ed in pieno svolgimento della guerra civile in Russia, venne convocato il secondo congresso dell’Internazionale nel 1920, al quale partecipò la frazione “astensionista” del PSI sotto convocazione dello stesso Lenin; fu in quel congresso che vennero approvate le famose 21 condizioni della Terza Internazionale, la ventunesima delle quali venne proposta dagli stessi astensionisti italiani. La questione dei “punti di Mosca” era dirimente per la frazione di sinistra che avrebbe costituito il partito comunista; si trattava certo non di una lotta democratica per conquistare una maggioranza all’interno del Partito Socialista che allora era saldamente in mano al “centro” massimalista, ma di preparare teoricamente e organizzativamente la scissione che di lì a poco si sarebbe verificata. 

Il diciassettesimo congresso del Partito Socialista venne convocato tra il 15 e il 21 Gennaio del 1921, al Teatro Goldoni di Livorno. I 21 punti dell’Internazionale, citando a chiare lettere i nomi dei rappresentanti riformisti all’interno dei partiti socialisti europei (tra cui Turati per l’Italia), preconizzavano l’espulsione dei riformisti, una critica aperta al fallimento della seconda internazionale di fronte alla guerra e a quella che allora veniva chiamata “internazionale 2 e ½” con sede ad Amsterdam, ed il cambiamento del nome dei partiti in “Partito Comunista di questo o quel paese, sezione dell’Internazionale Comunista”. Tutte queste richieste erano state in parte anticipate e fatte proprie dalle due tendenze di sinistra che affrontarono a Livorno le mozioni dei Treves, Modigliani, Serrati etc., ovvero quelle incentrate nei giornali “L’Ordine Nuovo” di Torino ma soprattutto ne “Il Soviet” di Napoli, diretto da Amadeo Bordiga.  

La mozione dei massimalisti di Serrati ottenne, prevedibilmente, una schiacciante maggioranza alle votazioni del congresso, ed allora i rappresentanti della mozione comunista, dopo una lunga orazione che riassumeva i dissensi dell’ala scissionista del Partito pronunciata da Bordiga, formarono un corteo per uscire e recarsi al Teatro San Marco di Livorno, dove finalmente venne fondato il Partito Comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale. 

Non ci proponiamo in questo articolo di parlare in dettaglio di quello che fu il primo momento storico del PCd’I tra il 1921 e il 1926, nonché delle giravolte tattiche della Terza Internazionale in via di degenerazione (dalla parola d’ordine prima del “Fronte Unico” nel 1921 per passare poi a quella del “Governo Operaio” nel 1922, a cui fu aggiunta la dicitura “e Contadino” nel 1924), o della defenestrazione della sinistra imposta dai vertici dell’Internazionale, perseguita da Gramsci e Togliatti dopo l’arresto in massa dei comunisti nel 1923 e chiamata con lo squallido nome di “bolscevizzazione”, fino alla definitiva ascesa del fascismo dopo l’assassinio di Matteotti ed il congresso farsa di Lione dell’ormai bolscevizzato PCd’I del 1926. Tutto ciò è materia per ulteriori approfondimenti, che guardino anche ad un superamento dell’esperienza rivoluzionaria dei primi due anni del Partito. 

Sarà sufficiente però riaffermare che tutte le falsificazioni costruite dall’opportunismo stalinista sulla storia dei primi anni del PCd’I, e ripetute dai suoi discepoli più o meno consapevoli, si basano sulla capacità che ha avuto lo stalinismo nell’aggiogare il proletariato alla nazione (e tra queste falsificazioni la più infamante rimane quella di aver favorito l’ascesa del fascismo per via della tattica “settaria” di rifiutare ogni frontismo con il Partito Socialista e con gli Arditi del Popolo, che è una narrazione fondata sul proposito di riscrivere i fatti di quegli anni oscurando il ruolo essenziale che ebbe l’Ufficio I° del PCd’I, ossia l’apparato militare illegale del Partito, nell’affrontare le squadre fasciste sul terreno della lotta aperta e offensiva, l’importanza relativa che ebbero gli Arditi in quella lotta ed il ruolo che il fallimento dello sciopero generale dell’Agosto 1922 ebbe nel favorire l’avvento del governo fascista, come abbiamo cercato di spiegare anche nel nostro articolo sull’antifascismo), nell’integrare insomma il proletariato all’interno della comunità materiale del Capitale. 

Come affermato all’inizio, siamo contrari al feticismo delle commemorazioni. Una valutazione critica sulla fondazione del PCd’I, ad esempio, non può prescindere dall’osservazione, condivisa in parte dallo stesso Amadeo Bordiga, che il Partito Comunista in Italia era nato troppo tardi: il Biennio Rosso era rifluito nell’illusione che le fabbriche occupate dagli operai costituissero un “nucleo di socialismo”, come riteneva l’Ordine Nuovo e Gramsci, senza riuscire però a scalfire il potere del governo liberale di Giolitti. Ciò era dovuto all’assenza di una forza organizzata attorno a un programma rivoluzionario. Il fatto che il partito fosse nato tardi non vuol dire che bisogna inventarsi qualche ipotesi retrospettiva in cui sarebbe dovuto nascere prima: pur essendo nato in una situazione di riflusso, il PCd’I è riuscito ad anticipare nei due anni in cui è stato in mano alla Sinistra una forma di organizzazione che si reggeva su una disciplina spontanea, razionale ma non oppressiva, fondata su un programma rivoluzionario che poneva al centro del suo agire la visione di una società radicalmente diversa dal capitalismo.  

Il movimento proletario che diede vita alla Rivoluzione d’Ottobre e al PCd’I è finito, ma il comunismo preme come forza sempre più potente all’interno della società odierna. La comunità del Capitale traballa sempre di più. Più che uno sterile ricordo dei cent’anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia i rivoluzionari odierni hanno bisogno di porsi nell’invarianza che li congiunge a quell’esperienza, a quella di tutte le rivoluzioni che hanno cercato di fondare una comunità antitetica a quella del Capitale ed alla visione di un mondo liberato dalle miserie del denaro, dello Stato, delle classi, del lavoro, delle nazioni e dalla disperazione materiale e psichica che accompagna la discesa agli inferi di una società sempre più intollerabile per la vita degli individui. 

ROMA 7 GENNAIO. AUTODIFESA PROLETARIA!

“Dal 1979, il 7 gennaio la Roma antifascista si ritrova davanti alla sede del Comitato di Quartiere Alberone per impedire ai fascisti, nel giorno dell’anniversario dei morti di Acca Larenzia, le loro provocazioni nel quartiere. Ci appelliamo a tutte le realtà romane a partecipare al presidio per ribadire che nei nostri quartieri non c’è spazio per i servi del capitale.

I compagni e le compagne

Appuntamento: GIOVEDI’ 7 GENNAIO ORE 17 – VIA APPIA NUOVA, 357

 

 

Spillover e Capitalismo

Che cos’è che unisce tra di loro fenomeni come la deforestazione massiccia del pianeta, il bracconaggio, l’eredità coloniale in Africa occidentale, l’estrattivismo e l’esplosione numerica della specie umana nell’ultimo secolo? Diremmo senza dubbio il Capitale, e tra le conseguenze dell’espansione apparentemente inarrestabile della mercificazione della vita umana, che imprime le sue stimmate su tutti questi fenomeni, vi è la nascita di nuove e sempre più distruttive pandemie, ormai consustanziali allo sviluppo del Capitale stesso.

“Spillover” di David Quammen è un libro che parla di pandemie. In particolare, parla di come nuovi agenti patogeni di origine virale (ma anche batterica, come è spiegato nel caso dei plasmodi della malaria) compiano il loro “salto” infettando gli esseri umani. Salta agli occhi che il motivo per cui questo libro è stato ripubblicato nel 2020 è dovuto alla pandemia di Covid-19; essa, a distanza di più di sette anni dall’anno di pubblicazione di Spillover, ha reso universalmente urgenti i temi di questo libro, e potremmo dire anche che il libro di Quammen ha creato una piccola crepa nella narrazione dei disastri “naturali” come fatti non immediatamente sociali, come fatti “naturali”.

A leggerlo, il libro è curiosamente strutturato come una sorta di romanzo autobiografico a tinte noir più che come un saggio di divulgazione scientifica in senso stretto, ma andrebbe considerato sia come un saggio che come un romanzo senza che un aspetto prevalga sull’altro; “Spillover” è infatti ricolmo di dati e spiegazioni di teoria epidemiologica così come di aneddoti, racconti e particolari narrativi a cui attinge la teoria che l’autore cerca di spiegare.

Il concetto chiave è quello di “zoonosi”, ovvero il “salto” di specie che effettuano i nuovi patogeni. Come avviene questo salto? Nel palcoscenico delle epidemie entrano in scena due personaggi: le specie serbatoio, che si sono adattate ad una presenza non distruttiva (o meno distruttiva) di un certo patogeno, e quelle di amplificazione, che accidentalmente si prestano da cassa di risonanza alla diffusione del patogeno tra gli esseri umani. I virus, in particolare quelli a RNA, hanno grandi potenzialità di generare mutazioni e dar vita a potenziali spillover da una specie a un’altra; sono “iperoggetti” ambigui, per usare un concetto di Timothy Morton, e del tutto dipendenti dai loro ospiti per la loro espansione, esseri in bilico tra vita e non-vita. Va notato di come il concetto di “ecologia” venga usato nel libro al di fuori del suo uso generico, per spiegare queste mutazioni, le mutazioni delle specie che li ospitano e quelle dell’ambiente in cui queste specie operano.

In “Spillover” viene mostrato empiricamente di come gli squilibri negli ecosistemi terrestri causati dallo sviluppo capitalistico, specie quelli dovuti alla deforestazione (gli esempi vanno dall’Australia alla Cina meridionale e all’Africa occidentale), abbiano stravolto e reciso in modo distruttivo le connessioni che esistevano tra la specie umana ed il resto del mondo animale, e l’aspetto più importante di questo stravolgimento riguarda gli equilibri con le moltitudini di patogeni che queste specie ospitano. Tra queste specie, ed indiziati principali di quasi tutti i nuovi virus emergenti, ci sono le varie specie di pipistrelli che popolano il pianeta.

Tra le zoonosi esplorate nel libro (il virus Hendra dei cavalli in Australia, l’epidemia di Nipah in India e in Bangladesh, la SARS a Hong Kong, le varianti della malaria, Ebola e Marburg in Africa Occidentale e l’HIV/AIDS) spicca proprio il capitolo sull’HIV, che concentra quasi tutti i punti concettuali di Spillover.

La storia che David Quammen racconta è quella delle manovre sanitarie di massa che il colonialismo europeo impose in Gabon, Congo e Camerun nella prima metà del ‘900, e di come in queste manovre fossero state sistematicamente applicate siringhe usate per via delle ristrettezze economiche, dell’assenza di produzione in serie di quest’ultime e (non viene direttamente detto, per quanto venga implicato) del pregiudizio razzista che confinava milioni di individui allo status di esseri inferiori rispetto ai bianchi. HIV-1, per come viene raccontato in Spillover e come afferma il consenso scientifico, ha avuto origine in un’area che corrisponde all’odierno Camerun sudorientale; il suo spillover è avvenuto più meno all’inizio del ‘900 (precisamente nel 1908, secondo gli studi di Micheal Worobey e Beatrice Hahn) da uno scimpanzé infetto con una variante mutata del virus autoimmune degli scimpanzé, ovvero SIVcpz. La sua diffusione, dapprima endemica in Camerun e nell’allora Congo Belga, con l’aiuto degli spostamenti di individui infetti nelle grandi città coloniali come Brazzaville e Léopoldville (ora Kinshasa), delle manovre sanitarie coloniali citate precedentemente, della distruzione degli habitat delle scimmie a causa del bracconaggio e dei problemi economici seguiti alla decolonizzazione del Congo negli anni ‘60, si è generalizzata dapprima nei tecnici haitiani andati a lavorare in Congo dopo l’indipendenza, e da Haiti l’HIV si è espanso negli USA e poi ovunque, mietendo decine di milioni di vittime.

Tralasciando i vari virus autoimmuni delle scimmie (è interessante la parte sui SIV dei cercocebi e dei cercopitechi, e di come inizialmente si cercasse l’origine di HIV-1 in quei tipi di scimmia) e la differenziazione tra HIV-1 e HIV-2, quello che colpisce della storia dell’HIV-1 è di come esso sia stato un’accumulazione di molteplici potenzialità distruttive causate dall’azione sociale umana; in un certo senso esso è il simbolo di tutte le zoonosi, nonostante la natura peculiare dei lentivirus di cui fa parte il virus che causa l’AIDS, e nonostante le differenze con le ben più mutevoli forme di coronavirus, tra cui quello della pandemia in corso. Le zoonosi ci ricordano che non esiste soluzione di continuità tra la natura sociale e quella organica, nonostante la “mineralizzazione” resa inevitabile dalla riproduzione allargata del Capitale, e che uno dei compiti del comunismo sarà quello di annullare il movimento che ha portato gli individui e la specie a distruggere la stessa natura di cui sono parte e totalità, reintegrando entrambi in un piano razionale di vita.

Il libro si conclude con una parte in cui si citano le esplosioni (outbreak) di certe specie di insetti, facendo l’esempio dei bruchi tenda, e paragonandole con l’uomo. L’espansione della specie umana è stata il più grande outbreak che la biosfera abbia conosciuto; per biomassa totale, gli esseri umani superano qualsiasi altra specie sulla Terra, ad eccezione delle formiche e dei krill. Il capitalismo va continuamente a scontrarsi con i limiti biologici della sua espansione; la pressione demografica e economica della specie, privata del suo nesso naturale ed oppressa dalle necessità di una vita insensata, disbosca, si agglomera in città affollate, uccide specie serbatoio, estrae risorse per il profitto capitalistico e genera i presupposti per nuove pandemie, che siano lentivirus, coronavirus o virus come l’Ebola o Nipah.

Se un tempo la produzione di acciaio era il simbolo della mineralizzazione del pianeta, adesso l’inorganico è la norma ovunque. Viviamo davvero nell’”antropocene”? Al di là del di senso di quest’idea (si può definire quest’era come “l’era degli esseri umani” partendo dal movimento irrazionale del mercato capitalista?), la situazione odierna è una in cui per l’infelicità generale viene massimizzata la distruzione delle riserve organiche terrestri, preparata una catastrofe ambientale con il pilota automatico e frenate le potenzialità di sviluppo sociale e individuale, se una pandemia non uccide nel frattempo milioni di persone oppure una crisi catastrofica distrugge i presupposti dell’economia “normale”, come abbiamo visto in quest’anno. Il Capitale è lavoro morto che domina sul lavoro vivo, è dominio dell’inorganico che schiaccia l’organico.

Spillover non è un libro di teoria rivoluzionaria (e l’autore sembra essere ottimista su una possibile riforma del sistema) ma è un lucido esempio di letteratura scientifica che, senza volerlo, capitola di fronte al comunismo e prepara la necessità di un’azione per il superamento della più irrazionale delle società umane.