
“Che il bombardamento di Dresda sia stato una grande tragedia nessuno può negarlo. Che fosse realmente una necessità militare pochi, dopo avere letto questo libro, lo crederanno. È stata una di quelle cose terribili che a volte accadono in tempo di guerra, causate da una sfortunata combinazione di circostanze. Coloro che l’approvarono non erano né malvagi né crudeli, ma può darsi benissimo che fossero troppo lontani dall’amara realtà della guerra per comprendere pienamente il terrificante potere distruttivo dei bombardamenti aerei nella primavera del 1945.” Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5
“La guerra non è mai un atto isolato.” Carl Von Clausewitz, Della Guerra
In questo maggio 2022 sembra di assistere, in una strana illusione prospettica, al ritorno delle trincee, riverniciate dalla triste tecnologia bellica del ventunesimo secolo. La guerra tra l’esercito russo e l’Ucraina si protrae da quasi tre mesi. Nel marasma di rumore grigio che si fa chiamare informazione giornalistica si susseguono polemiche, accuse e parole d’ordine marce nella bocca di chi cerca un “campo” in nome delle solite astrazioni: Giustizia, Libertà, Antimperialismo. Pace. Morte e crisi sistemica sono due aspetti che si accompagnano a vicenda: la natura mortifera del sistema capitalistico ha come sbocco inevitabile la guerra, ormai non più alternata alla pace ma continua, “totale” come direbbe Von Ludendorff.
Qualsiasi considerazione sulla guerra attuale in Ucraina necessita di ben più che uno slogan o una posizione dettata dalla voglia di apparire “sul pezzo”. Una posizione rivoluzionaria ha bisogno di ben altro che le nevrosi di riciclare cliché politici buoni per apparire “knowledgeable”, per mostrare di essere informato senza aver colto l’essenziale. Dissipare la confusione intorno alla guerra di quest’anno è un’opera politica: toglie le ambiguità, affila le parole e rende possibile un’azione che permetta davvero di influenzare, al netto della controrivoluzione profonda in cui viviamo, il corso degli eventi.
Innanzitutto, occorre partire da delle brevi considerazioni teoriche. La guerra permette non solo di creare un mercato per la produzione di armi o di espandere le “sfere di influenza” dei singoli stati, ma è intimamente legata agli effetti della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. La guerra distrugge macchinari, infrastrutture, tecnologia, e naturalmente distruggeintere popolazioni. La guerra, sia di prossimità che “guerreggiata” dagli eserciti dei paesi coinvolti, può essere usata come rimedio agli effetti della caduta del saggio di profitto, come controtendenza che bilancia il rapporto fra tecnologia e forza-lavoro; può presiedere ad un rinnovato ciclo di accumulazione, locale o globale, come fu d’altronde nell’immediato dopoguerra dei “trenta gloriosi” dal 1945 al 1975. La guerra è il segreto dell’accumulazione capitalistica: quando non è possibile continuarla con mezzi pacifici, sono pronti gli aerei militari, le bombe al fosforo bianco, i droni e un mare di sangue coperto di sporche illusioni.
Eppure una guerra di confronto diretto tra blocchi, una guerra mondiale con degli schieramenti precisi, è un evento che negli ultimi 80 anni è stato reso man mano sempre più obsoleto prima dal deterioramento “disteso” dei rapporti fra USA e Unione Sovietica (con quest’ultima che ha reso possibile, grazie alla sua stessa industrializzazione capitalistica “incompiuta” e implosa nel 1991, l’accumulazione di potere e di influenza del dollaro americano) e poi dai fatti degli ultimi trent’anni, con la potenza americana ritrovatasi sola detentrice del ruolo di “gendarme del mondo” e allo stesso tempo in inesorabile declino relativo a quelle che dovrebbero essere le potenze emergenti dell’imperialismo attuale, in primis la Cina. Ma per quanto ci si possa illudere sull’emergenza di un “mondo multipolare”, fatto di tanti feudi imperialistici differenziati a seconda delle proprie “appartenenze”, bisogna sempre ricordarsi che l’imperialismo non è una “politica degli stati”, ma (come direbbe Lenin) un “capitalismo di transizione”: quando si trapassa un certo punto nel livello di centralizzazione e interdipendenza del Capitale e dei capitali singoli è impossibile tornare indietro.
Quindi una guerra di blocchi, di alleati e di assi, per quanto possa sembrare il contrario, è comunque una remota eventualità, smentita dall’evoluzione economica degli ultimi 80 anni e dal fatto che non ci sia davvero un contendente che possa scavalcare il ruolo di perno che hanno gli Stati Uniti nello scacchiere geostorico globale. Un ruolo del genere implicherebbe, tra le altre cose, la possibilità di iniziare un ciclo di accumulazione rinnovato su scala mondiale, dei nuovi trenta gloriosi magari in salsa “green”. In che contesto si inserisce la guerra guerreggiata dalla Russia in Ucraina, considerando – come abbiamo affermato poc’anzi – che la Russia non costituisce un vero “blocco” antitetico a quello statunitense?
A un livello base di comprensione potrebbe apparire che questa guerra sia combattuta innanzitutto per le materie prime, un po’ come succedeva con i truismi sulle “guerre per il petrolio” guidate dagli americani negli ultimi trent’anni. Bisogna però ricordarsi che il significato del materialismo storico non sta in una determinazione di “cose”: la traiettoria del capitalismo attuale va analizzata non tanto come una sommatoria di elementi separati, come può essere la fame di materie prime o le decisioni politiche dei singoli governi, ma come un integrale di elementi interconnessi legati alla riproduzione e distribuzione di plusvalore.
L’industria e l’economia europea dipendono in misure differenziate dalle importazioni di gas dalla Russia. L’epicentro economico è e sarà la Germania, che com’è ben noto aveva previsto di rifornirsi con il gasdotto Nord Stream II di gas proveniente direttamente dalla Russia passando per il Mar Baltico. Le speculazioni sui futures delle materie prime, già in forte aumento da prima della guerra, sono aumentate vertiginosamente, in particolare su beni di prima necessità come pane, mais, soia. Il prezzo del grano è aumentato di più del 50% a livello mondiale dall’inizio della guerra (attualmente è sui 12 dollari e mezzo a bushel, NdR). Il tutto inserito in un contesto di scarsa redditività del capitale, di anemia del saggio di profitto, di stagnazione del commercio globale e di inevitabili timori per possibili carestie tra i miserabili delle periferie globali del capitalismo. Il fallimento dello Sri Lanka è il primo esempio che rende evidente l’instabilità sociale ventura.
Poi c’è la questione dell’egemonia monetaria. L’ingiunzione del governo russo di accettare solo pagamenti in rubli per le forniture europee di gas (e l’altrettanto artificiale tentativo di imporre uno standard aureo al rublo per evitare la sua svalutazione, svalutazione che in ogni caso pare sia stata sventata) sono parte di un wargame monetario di Mosca nel tentativo di smarcarsi dal dominio finanziario del dollaro. Si può notare di come il prezzo dei bitcoin e delle criptovalute come valute di riserva siano significativamente aumentati ad aprile per poi ridiscendere nel mese successivo con la risalita del rublo, e le prospettive di uno yuan digitale da parte del governo cinese si fanno sempre meno sperimentali.
Le potenze emergenti cercano di far vacillare il dominio del dollaro, senza riuscire a sostituirlo; alla guerra verrà accompagnata sempre di più l’anarchia valutaria a livello mondiale, e la disintegrazione del ciclo economico che dura dalla metà degli anni ’70. Intanto, sul fronte bellico, la infowar russa e quella NATO procedono specularmente alle bombe e ai massacri nel tentativo di “compellere” l’avversario ad agire secondo i propri interessi – a Kharkiv, a Mariupol, a Izium, a Donetsk.
Non staremo in questa sede a riepilogare tutti gli eccidi, tutte le atrocità e tutti gli spasmi propagandistici che stannocaratterizzando e continueranno a caratterizzare questa guerra. Non farebbe che aggiungere orrore mentre migliaia di proletari ucraini e russi muoiono al fronte in una guerra, come direbbe una canzone dei Kino, “senza una ragione particolare”. I residui anestetizzati di chi vuole vedere partigiani in ogni dove si scervellano per votarsi all’assassino migliore: con Zelenskyy o con Putin? Con la dottrina Gherasimov o con la compellence americana? Con il gruppo Wagner o con il Battaglione Azov, con i nostalgici dell’impero di Nicola II o con il nazionalismo ucraino? Non vi è che l’imbarazzo della scelta nel mercato delle “resistenze”.
Da parte nostra, invece, troviamo che l’internazionalismo non sia una frase fatta buona per dare una verniciata di rosso a una retorica spenta: sebbene l’imperativo di Lenin sul “trasformare la guerra imperialista in guerra civile” sia ormai obsoleto (e del tutto irrealistico nella guerra attuale, dato che nelle condizioni in cui ci troviamo è piuttosto aut guerra imperialistica, aut guerra civile: la guerra del capitale va fermata prima che scoppi) rimane la necessità di sabotare lo sforzo bellico sul fronte interno e con tutti i mezzi disponibili. Perché l’unica guerra che occorre preparare è quella degli sfruttati e dei rivoluzionari del mondo contro il tramonto di una società che trascina nel baratro della sua rovina chiunque senta il suono delle sue illusioni, e che va fermata al più presto possibile con tutta la forza che abbiamo: non c’è più tempo per attendere.