
Sono passati dieci anni dai fatti del 15 ottobre del 2011. Dieci anni segnati – in Italia – dal progressivo ispessimento del controllo poliziesco, dall’impoverimento sociale, dalla perdita di slancio di tutti i “movimenti”, dalla paralisi concettuale di molti, e da nuove, rovinose pandemie mondiali. La piccola generazione di coloro che hanno vissuto il 15 ottobre è oramai entrata, integrata o disintegrata, nel mondo sociale lasciato dai postumi di quell’anno. Ma, anche dopo dieci anni, al di là delle commemorazioni (che ci sono sempre state strette), chi di noi può davvero dimenticare quei giorni, scolpiti col fuoco nei nostri animi?
Tutti sanno che il corteo, che originariamente doveva approdare ai “palazzi del potere” di Montecitorio dove sarebbero dovute partite le geremiadi dei cosiddetti indignados contro la cattiveria di Berlusconi e delle banche, è stato deviato all’altezza di Via Cavour ed è poi proseguito, sospinto dal blocco della polizia e dagli sporadici attacchi di chi si era incappucciato, prima su via Labicana e poi infine in piazza San Giovanni, dove è accaduto l’episodio più noto di quella giornata, ovvero la rivolta aperta durata fino a sera contro le camionette della polizia che giravano intorno alla piazza nel tentativo di investire l’esecrata teppa. È cosa ben nota anche l’aperto sabotaggio della rivolta che i Cobas, gli indignados, i disobbedienti ed il variopinto popolo di cittadini benpensanti che partecipava quel giorno al corteo ha orchestrato contro chiunque venisse sospettato di essere “black bloc”, ultras o comunque violento nerovestito, con azioni non solo di aperta delazione (continuata a mezzo stampa nei giorni successivi, in particolare su La Repubblica) ma di sbirraglia interna al corteo contro individui che allora erano adolescenti o poco più. Il copione genovese si era insomma ripetuto a suo modo anche a Roma.
Che dire di quella rivolta che non sia stato già detto? Lasciamo che i commenti sulla “strategia”, su come la contrapposizione tra “persone comuni” e rivoltosi fosse stata controproducente e su quanto fossero gli ultimi spasmi di un movimento dell’Onda in via di naufragio si perdano nel vuoto da cui originano; lasciamo soprattutto che il campionario di infamie che disobbedienti, sindacalisti, giornalisti democratici e pacifisti hanno vomitato in quei giorni contro la violenza di piazza continui ad essere calpestato dai rivoluzionari; chi c’era e anche chi non ha potuto esserci ha assaggiato attimi di vita che solo scintille del genere offrono; ha compreso – più di qualunque libro, educazione od apprendimento letterario – la critica alla società del Capitale, cosa fosse la gioia del vivere diversamente una città come Roma, e si è organizzato spontaneamente attorno all’unica cosa che occorre davvero portare in quei contesti: la rabbia contro l’infamia della vita capitalistica.
Se la nostra piccola generazione ha continuato ad avere l’ombra di quell’entusiasmo dopo dieci anni è perché il 15 ottobre, nonostante le sue contraddizioni, è stato l’esplosione di un potenziale che negli anni successivi si è sempre meno ripresentato. Ma rimane sopito, vivo. E si riaccenderà nel precipitare delle condizioni che attendono il futuro ad un bivio: vita o morte, comunismo o distruzione umana. Rivoluzione o annichilimento!